100 Years Of Hitler: discesa nell’inconscio nazista

Hitler e i maggiori esponenti del regime nazista trascorrono l’ultima ora nel Führerbunker dandosi all’eccesso, all’alcol, al sesso e alle droghe: un viaggio allucinatorio tra i muri labirintici dell’inconscio nazista.

Il regista tedesco Christoph Schlingensief, noto per l’estro sperimentale, dirige in maniera inequivocabile, con un utilizzo massiccio della macchina a mano, piuttosto prossima ai soggetti, proprio per esaltare un’espressività smisurata e spaventosa. Questo film fu girato in 16 ore in un autentico bunker della Seconda Guerra Mondiale; oltretutto, utilizzando soltanto una torcia per far luce sulla follia dei personaggi, mostrando sul muro l’ombra di uomini e donne destinati alla dannazione eterna. 100 Years Of Hitler è la prima opera della “German Trilogy” – insieme a The German Chainsaw Massacre (1990) e Terror 2000 (1992) – in cui il regista si concentra sui punti di svolta della Storia tedesca del XX secolo: la dittatura di Hitler, la riunificazione della Germania e il clima xenofobo post-riunificazione.

La sceneggiatura è sostenuta da una forte base storica in riferimento al periodo di permanenza di Hitler nel cosiddetto Führerbunker, dove, insieme al suo segretario Martin Bormann, a Eva Braun e a Joseph Goebbels che portò anche la moglie e i sei figli, si insediò il 16 gennaio del 1945. Quindi, è proprio attraverso il realismo degli eventi che possiamo formulare la metafora: il bunker diventa il luogo dell’inconscio nel quale le anime nude sono spogliate da ogni artefatto, poiché nel sottosuolo esiste soltanto l’individuo istintivo senza inibizioni, separato da ogni tipo di ruolo sociale (padre/madre, marito/moglie, segretario, dittatore); dove, infine, viene illuminato l’Es freudiano, in questo caso piuttosto inquietante e spaventoso. Il sottosuolo non mostra Hitler come siamo stati tutti abituati a vederlo alla luce del sole, impettito e sicuro di sé nel pieno sfoggio delle sue capacità oratorie, in grado di persuadere la folla già esultante, bensì è un Fuhrer dallo sguardo impaurito, poco lucido e dalla mano tremolante (è risaputa tra gli studiosi la sua indole ipocondriaca e le sue precarietà fisiche).

La luce della torcia illumina la debolezza, l’orrore, la falsa coesione di un regime dittatoriale tra i più atroci della storia dell’umanità: evidenzia la meschinità dei suoi personaggi ancora inebriati da un’idea di potere, pronti a far prevalere il proprio egoismo e la propria supremazia. Il cast è molto abile a restituire, attraverso toni ironici e grotteschi, l’atmosfera claustrofobica e psichedelica durante il periodo di autoreclusione sottoterra, in un bunker simile a una sala d’attesa prima della dipartita verso l’inferno.

La misera condizione di questi esseri “umani” è ridotta a raccapricciante esistenza animalesca: una parabola discendente volta a smascherare ipocrisia e orrore di un potere tirannico giunto agli sgoccioli. Il film si presta come un ulteriore occasione per riflettere su uno dei periodi più bui della storia dell’umanità, da una prospettiva inedita, immersi e coinvolti negli ultimi sprazzi di follia nazista.

A cura di Matteo Malaisi