3/19: l’identità perduta

Camilla Corti è un avvocato di successo che trascorre le sue giornate tra riunioni fatte di innumerevoli termini tecnici, burocrazia e videocall con clienti da ogni parte del mondo. Una sera, attraversando la strada sotto la pioggia, viene investita da due uomini in motorino, che perdono il controllo del veicolo; colui che era alla guida fugge e si lascia dietro il passeggero, rimasto disteso sull’asfalto, agonizzante. Solo una volta tornata a casa dall’ospedale Camilla viene a sapere che l’uomo non ce l’ha fatta. Non ricordando se abbia attraversato con il semaforo verde o rosso e sentendosi responsabile di quella vita perduta, comincia un’indagine ossessiva per scoprirne l’identità, aiutata da Bruno, il direttore dell’obitorio, all’interno del quale i cadaveri non identificati non sono altro che numeri.

Identità e memoria sono i due temi fondamentali di questo film ambientato in una Milano divisa tra membri dell’alta società che credono di vivere realmente e persone d’estrazione molto più bassa il cui unico obiettivo è sopravvivere. Una storia che prende a tratti delle pieghe da thriller investigativo, per poi stabilizzarsi definitivamente sul binario del dramma introspettivo: alla (vana) ricerca della verità, infatti, si affianca quella dell’interiorità di Camilla, poiché l’incidente la sconvolge al punto da riportare alla luce i fantasmi del passato che non ha mai avuto il coraggio di affrontare. Si sente responsabile della morte dello sconosciuto così come di quella di sua sorella, avvenuta molti anni prima, e si potrebbe benissimo pensare che il suo desiderio che il fuggiasco venga catturato coincida con la punizione che lei stessa pensa di meritare per aver ignorato le grida d’aiuto di Valeria; non a caso l’incidente è avvenuto sotto una pioggia scrosciante che potrebbe ricordare le acque del Po, le stesse che popolano gli incubi di Camilla.

Però, nonostante le dinamiche della morte di Valeria non siano mai state chiarite, la sua identità era ben nota, il che vuol dire che al suo funerale è stata celebrata la sua memoria e l’epitaffio nella cappella di famiglia riporta il suo nome. Lo stesso non si può dire della vittima dell’incidente, un immigrato di cui non è stato ritrovato alcun documento se non una tessera della mensa dei poveri che lo identifica con il falso nome di Hamed Hassan (e qui Soldini apre una gradita parentesi sulle difficoltà che gli immigrati devono affrontare per raggiungere – e poter poi rimanere – in un luogo sicuro, lontano da una patria che invece di custodirli lascia su di loro delle cicatrici indelebili). Purtroppo l’identità dell’uomo non viene mai a galla, ma in compenso Camilla ritrova la sua: pian piano riscopre sé stessa come essere umano al di fuori di un lavoro che occupa la sua intera esistenza e ritrova il piacere di un pranzo in compagnia, dei giri in bicicletta, dei momenti con sua figlia e di un amore autentico. A tal proposito è significativo che la prima parte del film sia ambientata prevalentemente in luoghi urbani dall’aspetto triste e anonimo, senza identità, appunto; solo alla fine, quando Camilla si riappacifica definitivamente con sua figlia e riesce a dare al defunto una sepoltura secondo quelli che potrebbero essere stati i suoi desideri (e seppellendo con lui anche i propri demoni, finalmente esorcizzati grazie alle confessioni fatte ad Adele – la quale, tra l’altro, è molto simile a Valeria caratterialmente –), vediamo il mare, il sole e la quiete della natura.

La sceneggiatura non spicca per brillantezza, il rapporto madre-figlia necessitava un ulteriore approfondimento e forse l’insieme non risulta tanto emotivamente impattante quanto avrebbe voluto essere, ma le evidenti buone intenzioni di Soldini lo rendono comunque un film godibile.

A cura di Melissa Marsili