Un chitarrista scordato

Gli anni ’30, la Grande depressione, la musica jazz: quella di Accordi & disaccordi è un’America che respira sigarette, frequenta i club di periferia e culla artisti con dubbia integrità morale. Emmet Ray è uno di loro, suona la chitarra – jazz, rigorosamente – ma spesso non si presenta agli spettacoli per cui è pagato; o, se lo fa, è ubriaco. È il secondo chitarrista più bravo al mondo, sopra di lui solo Django Reinhardt, lo zingaro francese che venera e odia al tempo stesso. Egocentrico, vanesio, nevrotico, con problemi di alcool, soldi e donne, capace di trovare un equilibrio e un posto nel mondo solo quando ha in mano la sua chitarra, Emmet rappresenta genio e sregolatezza, il perfetto artista di baudelairiana memoria.

Woody Allen racconta l’incerta biografia di questo musicista fittizio, e lo fa giocando con tutti gli elementi che ha a disposizione: la forma narrativa, un finto documentario in cui Allen stesso – in quanto davvero esperto di jazz – interviene insieme a un critico e uno storico della musica, per raccontare ciò che si sa di questo Emmet Ray; il soggetto, la storia di un chitarrista mai esistito che ricalca però la storia vera di Django Reinhardt, a sua volta presente come leitmotiv nella pellicola; il titolo, Accordi & disaccordi, che si rifà tanto alla terminologia musicale, quanto alla dicotomia del protagonista, costantemente in bilico tra il successo artistico e la decadenza esistenziale.

Non un cliché entra nella pellicola di Allen: Emmet Ray è un genio dannato con traumi infantili, problemi emotivi e paura dell’amore, eppure ogni minima traccia di retorica viene spazzata via dalla tipica cinica comicità del regista, che spesso si colora di toni pirandelliani. È infatti un sorriso amaro quello che spunta davanti agli appuntamenti grotteschi del protagonista, che porta le sue signore nelle discariche a sparare ai topi, o sui binari a guardare i treni. Inebriato dal suo genio, Ray non vede che il proprio piacere, e le donne di cui si circonda servono solo a soddisfare il suo ego smisurato. Rifugge l’amore, perché rovina gli uomini e incatena gli artisti, ma così facendo non fa altro che limitare la propria creatività. Non affronta i suoi fantasmi, perché riesce a guardare solo la propria magnificenza, ma la sua nevrosi lo rende vulnerabile a tal punto da bruciare i vestiti di scena e la falce di luna costruita al solo scopo di accontentare le sue manie di grandezza.

Nell’America della Grande depressione non c’è spazio per il successo, e la crisi economica sembra permeare anche l’animo delle persone. Nevrastenici, sereni solo all’apparenza, pervasi da un senso di solitudine, Emmet Ray e i personaggi che lo circondano sembrano usciti dai quadri di Hopper, da Hattie, la lavandaia muta che si innamora del chitarrista, a Blanche, la ricca scrittrice che psicanalizza gli uomini per trarne soggetti per i suoi libri. Una solitudine che raggiungerà il punto più alto nel momento in cui Ray prenderà atto della propria condizione di miserabile: isolato nella torre d’avorio in cui si era auto innalzato, non aveva capito di essere umano. La nuova presa di coscienza, la sofferenza, il bisogno d’amore, trovano il loro sfogo nell’amata chitarra, spezzata dall’ira di un attacco isterico. Di Emmet Ray, ci dicono gli intervistati, da lì in poi si seppe poco, ma ciò che è sicuro è che abbia inciso due dischi prima di scomparire nel nulla. Pare siano i più belli della sua carriera; al livello, si dice, di quelli di Django Reinhardt.

A cura di Margherita Ceci