Adagio: storia di riscatto e redenzione

Adagio è una pellicola che trasuda lo spirito di una Roma che non si conosce abbastanza, quella periferica e malfamata, dove la criminalità è all’ordine del giorno. Stefano Sollima porta avanti il filone cinematografico romano tipico della poetica del regista, che richiama il genere poliziesco degli anni ’70 e che lo rende immediatamente riconoscibile al pubblico. Ripercorrendo la linea tracciata con Suburra e con la serie Romanzo criminale, Sollima, questa volta, si spinge maggiormente nella costruzione di un racconto che non metta in luce i personaggi criminali come meri delinquenti incalliti ma che si riveli intimo e amaro, con esseri umani – padri e figli – impegnati a fare i conti con le proprie ferite, e che alla fine sono ancora capaci di riscattarsi e redimersi.

Il protagonista è Manuel (Gianmarco Franchini), un ragazzo di sedici anni che convive e si prende cura dell’anziano padre (Toni Servillo). La vita precaria di Manuel cambia irreversibilmente quando rimane vittima di un ricatto da parte di tre poliziotti corrotti. Da quel momento, infatti, l’adolescente è costretto a intraprendere un percorso che lo porterà a scoprire una verità sprezzante sul mondo e su chi da sempre lo circonda. Ciononostante, questa esperienza si rivelerà essere, per il protagonista, loccasione per crescere. Manuel, per fuggire ai poliziotti, chiederà aiuto a Paulniuman (Valerio Mastandrea) e al Cammello (un irriconoscibile Pierfrancesco Favino), due vecchie conoscenze del padre ed ex membri temibili, anche se ormai vecchi e sciupati, della Banda della Magliana. Questo fatale incontro si rivelerà salvifico per entrambe le parti, anche se in modi diametralmente opposti. In uno scenario sovrastato da alti palazzi grigi e affollati e da un’afa estiva asfissiante (che Sollima restituisce a noi spettatori in maniera tangibile), dove sembra dominare solo violenza e perdizione, sopravvive ancora una possibilità, anche per i ‘‘dannati’’, di riscattare e preservare la propria umanità.

Sollima in questo film accentua il simbolismo: i continui blackout che attraversano la città – su cui si concentra la cinepresa – sembrano voler dar tregua e respiro alla violenza dilagante, così come l’incendio apocalittico che apre il film e che vediamo avanzare nella Città Eterna, portando con sé le sue proprietà rigeneratrici. In chiusura del film, una pioggia di cenere cade sulla città e chiude circolarmente la narrazione, lasciando presagire a una rinascita, come la fenice, a una possibilità per tutti i personaggi di cambiare il corso della propria esistenza, lentamente, senza fretta, adagio. Nonostante il film risulti tecnicamente imperfetto e talvolta ridondante di simbolismi, si apprezza il fatto che il regista Stefano Sollima abbia voluto tingere per la prima volta il genere noir, suo marchio di fabbrica, di una sfumatura più intima, sentimentale, dove il discorso generazionale si intreccia a quello personale, di formazione e di riscatto umano.

A cura di Margherita Benati