After Yang: cloni, corpi umani e spiritualità artificiale

I dispositivi tecnologici sono progressivamente entrati a far parte della nostra quotidianità. Schermi, software, apparecchi regolano il nostro rapporto con la casa, il mondo e soprattutto mediano le nostre relazioni in modo via via più pervasivo. Proprio l’esponenziale proliferazione di tecnologie nell’abitudine umana è stata iperbolizzata dalle distopie, che spesso hanno visto nella macchina una minaccia per l’uomo e per la sua esistenza sul pianeta. Ma la tecnologia di After Yang non è un mezzo di sorveglianza onnipresente e neanche uno strumento di esercizio del potere totalitario. Insomma, non è niente di tutto ciò a cui le più note narrazioni anti-utopiche del secolo scorso ci hanno abituato.

Infatti, il techno-sapiens Yang, oltre ad avere sembianze e sensibilità perfettamente assimilabili a quelle umane, risulta necessario alla famiglia di cui è ospite da anni. La sua esistenza è funzionale alla crescita della piccola Mika e alla creazione di un rapporto conoscitivo con la sua terra d’origine. In After Yang, l’intelligenza artificiale è una figura fraterna, ludica ed educativa come una balia, capace di farsi carico dei primi anni di vita dell’essere umano, oltre che delle sue radici affettive e culturali.

Sta proprio qui il tratto più profondo e curioso del secondo lungometraggio del prolifico video-saggista Kogonada, tratto dal racconto Saying Goodbye to Yang, di Alexander Weinstein: nel futuro prossimo in cui è ambientata la storia, le responsabilità genitoriali e pedagogiche possono essere affidate a un software. E gli umani? Quel rigore architettonico che in Columbus (2017) astraeva la messa in scena, sembra qui venire trasposto nell’essenzialità dei personaggi di Jake (Colin Farrell) e Keira (Jodie Turner-Smith): genitori premurosi certo, ma freddi, individualisti e assenteisti.

Kogonada prende in esame la famiglia come cellula primaria della società per ritrarre un’umanità sventrata delle sue capacità relazionali, a cui la tecnologia sopperisce nella creazione di legami emotivi, affettivi e genitoriali. Non ci troviamo più davanti a cyborg spietatamente privi di anima, alla conquista della terra e del genere umano, ma piuttosto ad un addormentamento di quest’ultimo, un’atrofizzazione silenziosa e passiva delle sue componenti emozionali. Così, proprio come i replicanti di Blade Runner (1982), i techno-sapiens risultano più umani degli umani stessi ed è l’individuo, non più la macchina, a connotarsi dei tratti più cupi e inquietanti tipici della distopia.

Sarà proprio l’improvvisa assenza di Yang a costringere Jake a interfacciarsi con ciò che ha dimenticato, coi propri limiti e soprattutto con l’alterità. L’intelligenza artificiale, scandagliata e sondata nei suoi ingranaggi, restituirà all’uomo una storia, uno sguardo e un pensiero sul mondo; una galassia sconfinata di immagini e ricordi, insomma: un’identità che l’uomo stesso sembra aver dimenticato.

In uno scambio col padre, Mika sottolinea l’importanza di “Getting my own water”, prendere il proprio bicchiere d’acqua da sé, senza contare sull’aiuto del software. Una battuta emblematica capace di evidenziare quante delle nostre azioni basilari quotidiane abbiamo affidato all’inanimato, rinunciando così, poco a poco, alla scelta, al contatto diretto con il mondo. In questo modo, l’inanimato si umanizza e, specularmente, l’umanità si meccanicizza, fino a rinunciare alla gestione del rapporto peculiarmente umano e “vivente” che esiste tra genitori e figli.

Kogonada costruisce le inquadrature in modo elegante e riempie di riquadri, stipiti e finestre la messa in scena. Così facendo, imprigiona i suoi soggetti in parti divise dell’immagine, porzionando in spazi a sé stanti la stessa famiglia protagonista e isolando l’essere umano, fisicamente allontanato dai suoi simili. Il suo sguardo teorico così denso però, non si carica di insegnamenti morali col dito alzato, ma offre anzi uno sguardo possibilista e, in fondo, fiducioso verso il futuro.

Con un andamento meditativo, After Yang riflette sulla perdita e ci interroga sul nostro modo di avvalerci della tecnologia; un tema vasto e urgente che fa sì che i tratti futuristici di questo racconto finiscano per assomigliare sempre di più alle storture del nostro presente. Per questo, più che demonizzare l’intelligenza artificiale, il film apre una riflessione complessa sull’incapacità dell’essere umano di conoscere davvero i suoi simili, con un racconto delicato che ci invita, per richiamare il titolo, a non diventare un “dopo”, a non essere postumi rispetto a noi stessi, semplici cloni.

A cura di Matteo Bonfiglioli