All Light, Everywhere: lo sguardo sull’altro come responsabilità

Come ci comportiamo davanti alle immagini? Quanto ce ne serviamo per entrare in contatto con il mondo? Infine, come le immagini ci impongono una precisa prospettiva sulla realtà? Domande così vaste da non consentire una risposta netta. Infatti, All Light, Everywhere interroga il nostro sguardo “mediato” tramite un caleidoscopio di prospettive diverse (filosofiche, storiche, sociali), senza dare soluzioni certe, in modo da responsabilizzarci alla visione.

Oggi, le immagini sono come una seconda pelle che ricopre il pianeta: ogni anfratto dello spazio pubblico, domestico o di quello digitale dei nostri cellulari, è affollato di stimoli visivi differenti. Proprio questa proliferazione rende urgente e necessaria la riflessione compiuta qui da Theo Anthony, raffinato documentarista, ma anche fotografo e video-saggista, avvezzo quindi all’uso e alla produzione di immagini dal vero, ma anche al riutilizzo di quelle già esistenti. A questa materia complessa, l’artista risponde con una molteplicità di sguardi diversi sul reale, oscillando tra la soggettività delle camere in movimento e l’alata oggettività di un satellite.

All Light, Everywhere narra dei modi che ha l’essere umano di mediare il proprio sguardo sul mondo, dell’abitudine a farsi indirizzare alla visione, dell’illusione tutta umana di poter dominare e razionalizzare il conoscibile con il proprio occhio. Dall’invenzione della prospettiva rinascimentale, passando per i dispositivi di registrazione e fissazione della realtà circostante su un supporto, fino ai mezzi di riproduzione digitali, la voce narrante attraversa una storia che rischia di capitolare in una stortura letale del nostro rapporto con il mondo.

Fotografare e catturare la realtà significa sceglierla, porzionarla, metterla in cornice. È un atto che la scrittrice e filosofa Susan Sontag definirebbe predatorio, violento, qui ben simboleggiato dai due prodotti di punta dell’azienda Axon, tristemente attuali: body cameras da una parte e taser dall’altra; registrazione e “aggressione” messe in parallelo; puntare l’obiettivo e, accanto, puntare un’arma. Una similitudine che ha a che vedere con la nascita dell’uso di foto e crono-fotografia, sorte in orizzonti bellici, coloniali, propagandistici o di spettacolarizzazione del diverso.

In questo modo, All Light, Everywhere esplora l’aspetto pericoloso e “mortifero” delle immagini: la lesione della privacy in nome della sorveglianza, la creazione di modelli e regimi visivi devianti per la collettività, e in fine il modo in cui le immagini, nate ad uso e piacere dell’essere umano, si siano rese indipendenti dalla realtà, con l’arrivo del digitale. In poche parole, documenta come l’occhio artificiale e meccanico, più esatto delle nostre retine mortali, si sia reso indipendente da quello umano, superandolo.

Il complesso e avanguardista sistema di monitoraggio e mappazione dall’alto indagato dal film rispecchia al meglio questa idea di “immortalità” del dispositivo ottico: un Google Earth potenziato che, come il terribile “angelo della visione” che incombe sui protagonisti di Nope (2022, Peele), guarda e governa il mondo col suo occhio. «God Sees Everything», commenta chi lo controlla davanti a un monitor, come dire che l’occhio meccanico è ormai onnipotente; un punto di non ritorno – o meglio, un punto cieco – che All Light, Everywhere cattura con sapienza e profondità, non rinunciando a narrare in modo accurato quelle che, al di là dei ruoli sociali e delle cartografie, sono le nostre origini: l’essere umano.

A cura di Matteo Bonfiglioli