Armageddon Time: l’American dream non è per tutti

New York, 1980. Paul Graff è un undicenne a cui le regole e la disciplina stanno troppo strette: disobbedisce ai genitori, si mette nei guai a scuola e non rispetta le consegne dei compiti assegnati dai docenti, preferendo dare sfogo alla sua creatività. La sua amicizia con un coetaneo afroamericano, Johnny Davis, sembra essere una delle poche cose in grado di dare un po’ di colore alla sua quotidianità, insieme all’affetto di suo nonno Aaron.

Nonostante il suo comportamento non sempre giustificabile, non è difficile empatizzare o quantomeno provare compassione per un bambino come Paul, che sogna ad occhi aperti, che vuole sentirsi libero di scegliere la sua strada, che si ritrova a crescere molto prima di quanto desideri (un concetto efficacemente veicolato attraverso il montaggio, che ci catapulta da una scena a quella successiva ancor prima che i personaggi abbiano terminato di pronunciare le loro battute) e la cui indole artistica non trova supporto da parte dei genitori, i quali vogliono assicurarsi che il figlio intraprenda un percorso più sicuro verso l’idea di successo predicata dai Trump. Questo comporta un fardello non indifferente, ossia avere tra le mani il futuro a cui la sua famiglia aspira: «Tu e tuo fratello siete la mia unica speranza», dichiara la madre Esther.

Nessuno, invece, ripone le stesse aspettative in Johnny. Il suo destino sembra essere già segnato dal suo percorso scolastico, disastroso di certo non per sua scelta. Nonostante ciò, per un po’ si ha l’illusione che Paul e Johnny abbiano più tratti in comune che differenze: sono entrambi facili bersagli del clima di intolleranza e discriminazione che regna in un’America pronta alla vittoria di Ronald Reagan, entrambi insofferenti verso chiunque rappresenti un’autorità, entrambi incompresi e desiderosi di fuggire verso un futuro ignoto che è comunque meno spaventoso di quello certo (persino il cosmo appare più allettante a Johnny di una Terra a cui sente di non poter appartenere). Impossibile non notare la somiglianza con Antoine e René ne I 400 colpi di François Truffaut, un richiamo che si fa ancora più esplicito quando Paul e Johnny rubano un computer per poterlo vendere e procurarsi così i soldi per andare in Florida.

Ma dopo una serie di punizioni condivise, solo uno dei due finirà per pagare le conseguenze più gravi, perché l’unica vera differenza tra loro si rivela, agli occhi della società, la più grande di tutte: il colore della pelle. A lot of people won’t get no justice tonight, recita Armagideon Time dei Clash, che fa da apertura al film. E anche il padre di Paul riconosce che la discriminazione (di qualunque natura) sia profondamente ingiusta: dopotutto suo suocero ha alle spalle un passato di persecuzioni. Ma l’istinto di sopravvivenza prevale sull’indignazione: «Ho imparato molto tempo fa che bisogna essere grati quando qualcuno ti dà una mano». Paul ha un privilegio che a Johnny non sarà mai concesso: la possibilità di mimetizzarsi tra la folla. È sufficiente nascondere le origini del proprio cognome.

Con la morte di Aaron, punto di riferimento morale che incoraggia il nipote a usare la voce contro l’ingiustizia, è come se se ne andasse anche il lato più coscienzioso degli Stati Uniti; inizia un nuovo capitolo della storia americana, dopo cui nulla sarà più come prima. L’Apocalisse.

Armageddon Time è, nel complesso, un film capace di toccare molte corde, anche grazie alle performance di un cast stellare; tuttavia, al di là di un evidente senso di colpa e di un certo pessimismo, non è del tutto chiaro quale messaggio si proponga di trasmettere.

A cura di Melissa Marsili