Avatar – La via dell’acqua: Una nuova speranza
La principale critica mossa al film è quella che un po’ tutti possiamo aver percepito: la storia narrata da Cameron non è certo la più innovativa e originale. Non solo ricalca il classico stilema in tre atti che è ormai divenuto una costante per Hollywood, ma gli archetipi a cui i personaggi si riferiscono e i legami che si creano tra di loro sono ben conosciuti dal grande pubblico. Jake Sully è l’ennesimo grande capo americano, fedele al popolo, coraggioso in battaglia, duro ma in fondo amorevole con la famiglia. La tradizionale parabola degli eroi a stelle e strisce che vediamo sempre sullo schermo; la naturale prosecuzione dell’arco narrativo del primo film, il quale a sua volta non brillava certo per originalità. Possono però essere queste considerate criticità, soprattutto se alla regia siede un certo James Cameron? Ovviamente no. La scelta di alleggerire la struttura narrativa per dare spazio ad altro è certamente voluta, e anzi dimostra grande intelligenza: fornire ulteriori sfumature o intrecci non avrebbe aggiunto nulla ad un’opera già corposa e lunga, ma che soprattutto punta ad emozionare un pubblico vastissimo con ben altro.
La durata del film (ben 192 minuti) è stato un altro tema caldo. Soprattutto negli ultimi anni abbiamo visto molte pellicole – i cinecomic sicuramente – ritagliarsi sempre più minutaggio al cinema e a casa. Certamente la maggiore fruibilità e la possibilità di mettere in pausa dal divano hanno portato all’avanzamento di questa tendenza, senza dimenticare che le nuove compagnie di streaming non hanno più limiti produttivi da rispettare in questo senso. Ma se spesso ciò è usato per “allungare il brodo” e colmare una mancanza di sostanza con qualche scena visivamente o emotivamente accattivante, Avatar 2 fa altro, o meglio non fa solo questo.
Il film vive certamente della propria abbondanza – oltre che qualità – visiva e non fa niente per nasconderlo. Ciò non toglie che l’operazione attorno ad esso vada ben oltre l’estasi per gli occhi. Al netto della frammentazione in atti, la narrazione si divide chiaramente in due parti: una della “contemplazione” e una dell’azione. La seconda si concentra inevitabilmente sullo scontro finale, inutile da commentare dato l’implicito tasso di spettacolo ed epica che ci si aspetta da un film del genere. La prima è invece una costante della moderna costruzione fantasy: la rilevanza data agli spazi in cui i protagonisti si trovano ad interagire.
Mentre normalmente l’effetto di meraviglia per il mondo costruito viene lasciato in un sottofondo perenne, in questa pellicola è relegato ad una sua sezione. “Relegato” è in realtà un termine improprio, dal momento che questa parte, quella “contemplativa”, occupa quasi metà dell’opera. Il tutto è però funzionale al trasporto emotivo di cui necessita la seconda frazione. La costante e viscerale relazione che i personaggi hanno con il loro ambiente, in un ciclo di scoperta e comprensione reciproca, non può lasciare indifferente lo spettatore. Questo, incanalato dalla magnificenza visiva, finisce per immergersi in primissimo piano con le creature, le piante e le persone che vede sullo schermo. In ciò gioca un ruolo fondamentale il background documentaristico del regista, che si declina in una paradossale realismo estremo. Pandora diventa a sua volta un personaggio, anzi il personaggio. Ed ecco che le solide ma semplici strutture narrative e interattive tra i personaggi acquisiscono nuova linfa: nel più classico degli scontri finali, i na’vi e ora anche il pubblico lottano per la salvaguardia del mondo che è diventato loro fratello durante quella “interminabile” prima frazione.
Anche l’occhio vuole la sua parte. Descrivere l’operazione visiva concepita da Cameron e realizzata dall’equipe di effettisti è impossibile a parole: è più facile avvicinarcisi per analogia. Un’epifania, un evento la cui portata può essere compresa solo vivendolo nel momento in cui è stato concepito. Forse si tratta della stessa sensazione che hanno avuto i nostri genitori nel 1977, quando Star Wars ridefinì lo sguardo di un’intera industria: l’avvenimento che puoi studiare e commemorare, ma non capire, perché ormai è passato. Ancora più eclatante è la portata dell’ultima opera di James Cameron, dal momento che lo stesso aveva già creato uno spartiacque all’uscita del primo Avatar nel 2009, e replicare sembrava impossibile.
La via dell’acqua tocca nuove vette, quando proprio negli ultimi anni l’ondata innovativa scaturita dal precedente capitolo andava esaurendosi. Da una parte l’abbassamento di qualità dovuto alla quantità, che vede in maniera esplicita la Marvel in primo piano; dall’altra il paradosso concettuale di alcuni prodotti, ad esempio Dune (2021), la cui cura visiva raggiunge innegabili traguardi qualitativi, ma si riduce troppo spesso a mera ostentazione di imponenti sfondi senza vita: cosa potrei ricevere di più rispetto ad una distrazione per gli occhi?
Opere come Avatar 2 stanno cercando di invertire la rotta. La loro carta di Mercatore è una maggiore responsabilità dei mezzi e una visione più chiara dell’obbiettivo, l’eliminazione del superfluo e la convinta affermazione di una natura commerciale e d’intrattenimento, ma non per questo bassa o poco raffinata. L’augurio è che opere come queste diventino stelle polari nell’immaginario comune, e che siamo veramente una nuova speranza, un po’ come fu il film di Lucas nel 1977.
A cura di Alessandro Cricca