Riproporre un mito: Babel

Dobbiamo forse a Bruegel il Vecchio l’immagine della Torre di Babele che abbiamo meglio impressa nella memoria: un mastodontico cantiere in costruzione che si slancia verso il cielo, sulle cui fondamenta grava il peso millenario del mito. Un’impresa che è diventata il simbolo dell’arroganza dell’uomo che sfida Dio e dell’incomprensione a cui sono destinate le persone.

Babel, il film di Iñárritu che chiude la “Trilogia sulla morte”, porta con sé un titolo suggestivo e sorge spontaneo chiedersi se sia in grado di richiamare tutte quelle impressioni evocate dal racconto di Babele. La pellicola ruota attorno a quattro storie diverse e mette in scena, lungo tre continenti, una decina di personaggi che si differenziano per età e per cultura, alternando attori di vetrina a sconosciuti. Già questa congerie di fatti e di persone basterebbe a giustificare quantomeno la scelta di un titolo che rimanda all’idea generale di confusione, in un film in cui le lingue, le musiche e i paesaggi si moltiplicano come i riflessi in un caleidoscopio.

Le quattro vicende sono solo apparentemente sconnesse, perché, una scena dopo l’altra, siamo in grado di ricostruire il mosaico che è sotteso alla narrazione e ci rendiamo conto del filo tematico del dolore che percorre l’intera storia, in un gioco di richiami e di rimandi in cui salta anche la linea temporale. Ma è evidente che allo spettatore non tocchi semplicemente il compito di sciogliere il garbuglio degli avvenimenti.

Babel può essere letto come la traduzione del mito di Babele nel mondo contemporaneo. I personaggi del film sono condannati, come gli uomini della Genesi, a una vita di incomprensioni, in attesa di una redenzione che tarda ad arrivare. Ed ecco che il regista mette in scena l’incomunicabilità di chi non riesce a dare voce ai propri drammi personali oppure l’indifferenza generale che affligge la società, che si macchia di egoismo e preferisce sempre l’io all’altro, anche quando in pericolo c’è la vita di una persona.

Del resto, nemmeno il lieto fine è destinato a tutti, soprattutto per chi, sia pure per ingenuità, ha commesso degli errori. E lo si capisce bene dalla scena straziante e dalla forte ascendenza biblica con cui si chiude la storia dei due bambini in Marocco, con un padre che stringe tra le braccia il figlio morto e il fratello che avanza in lacrime verso la polizia, assumendosi le proprie responsabilità. Altrettanto icastica e speculare è l’immagine conclusiva del film dove, su un grattacielo di Tokyo, quasi novella torre di Babele, un altro padre abbraccia la propria figlia sorda, emblema di quel dramma di incomprensibilità a cui sembriamo tutti essere destinati ma che può ricomporsi finalmente fra le braccia di un caro.

A cura di Mattia Rizzi