Un film di donne, fatto da una donna, per parlare alle donne

Come lo spieghi a un uomo quell’enorme mondo di emozioni che si nasconde dietro a tutto quel rosa Barbie che riempie lo schermo? Come glielo spieghi, a un uomo, che quello che sta guardando non si può ridurre a un semplice film sull’empowerment femminile? Come glielo metti in testa, a un uomo, che non importa quanto sia femminista e devoto alla causa, perché l’universo di riferimento in cui è nato e cresciuto sarà sempre lontano anni luce dal nostro?

È difficile raccontare Barbie, l’attesissimo film arrivato nelle sale lo scorso 20 luglio. È difficile perché difficile è raccontare quelle piccole cose che costellano la vita di ogni donna, dalla nascita all’età adulta; il rapporto di una figlia con la madre, tanto viscerale quanto ostile; i pensieri introiettati da tempo, talmente subdoli da infilarsi in qualunque angolo dimenticato della tua coscienza. Eppure, la regista Greta Gerwig riesce a mettere tutto quest’universo in pellicola, con una sensibilità tale da riuscire a risvegliare quella bambina interiore che avevamo dimenticato.

È un viaggio per certi versi catartico, quello che Gerwig ci fa fare da Barbieland al mondo reale. E ce lo fa fare lentamente, prendendoci per mano e mostrandoci poco alla volta vecchi ricordi: ecco che compaiono gli ambienti scomponibili, che trasformavano un’ambulanza in una sala d’ospedale; le Barbie rovinate, quelle su cui ognuna di noi, in prima persona o a casa di amiche, aveva sfogato le proprie aspirazioni di parrucchiera, truccatrice, ginnasta. E poi i giochi con la mamma, la crescita, il momento in cui si mettono via le bambole perché «sono da bambina». Arriva l’adolescenza, l’odio verso la propria mamma, quel senso di inadeguatezza che ti fa odiare e rinnegare il modello di donna bionda e perfetta delle Barbie con cui giocavi da piccola. Quindi diventi donna, e scopri che ti senti a disagio a camminare in una strada piena di uomini che ti guardano; no, non ti guardano: ti bramano. E finisce che un po’ Barbie, un po’ bambola giocattolo nelle mani altrui, in quei momenti, ti ci senti.

Il ribaltamento di prospettiva, da Barbieland al mondo reale, è limpido. Qui gli uomini sono ovunque: sulle banconote, nelle più alte cariche professionali, in televisione. Sono loro ad aver fatto la storia, a reggere i Paesi, a portare avanti il mondo. Le donne? Loro esistono in virtù degli uomini. È la legge del patriarcato, grazie a cui Ken, la cui esistenza a Barbieland si basava sull’esistenza di Barbie, ora riesce a dare un senso alla propria vita. Appunto, il ribaltamento è limpido. Talmente limpido che il suo stupore nel sentirsi rispettato, considerato, trattato alla pari, non solo lo capiamo bene, ma quasi empatizziamo.

È a questo punto che il monologo sulla difficoltà di essere donna pronunciato da Gloria, interpretata da America Ferrera, colpisce diretto, spogliandosi di tutta quella retorica che in altri contesti si sarebbe invece impossessata delle stesse parole. «You’re supposed to stay pretty for men, but not so pretty that you tempt them too much or that you threaten other women because you’re supposed to be a part of the sisterhood». Femminile sì, ma non troppo sexy altrimenti provochi. Se sei troppo bella poi, finisci per intimidire le altre donne, e non va bene, perché le donne si devono supportare tra di loro. Però devi comunque farti vedere e risaltare, ma ricordati di essere grata per essere dove
sei e avere quello che hai («But always stand out and always be grateful»). Attenzione però, non devi dimenticarti mai che sei in un sistema sbagliato, patriarcale. Quindi trova un modo per far notare questa distorsione, ma allo stesso tempo sii sempre grata per essere dove sei («But never forget that the system is rigged. So find a way to acknowledge that but also always be grateful»).

Ad ascoltare le parole è “Barbie stereotipo”, la Barbie per eccellenza, quella con cui ogni bambina ha giocato. La Barbie che abbiamo imparato a immaginare con quell’idea di perfezione, ma che in quel preciso momento del film è tutt’altro che perfetta; anzi, proprio in quella sua perfezione apparente si nasconde un’esistenza vuota e perciò imperfetta. Un dramma esistenziale che rende la bambola paradossalmente umana. E quando pensiamo di aver visto ormai tutto, ecco che compare Ruth Handler, la creatrice di Barbie: una mamma, che arriva per aiutare la figlia a rialzarsi (il nome Barbie viene dal nome della figlia di Ruth, Barbara). Il tema madre-figlia era già stato disseminato nel corso della pellicola, ma è nelle battute finali che rivela tutto il suo potenziale, di fronte alla bambola che chiede alla sua creatrice il permesso di andare nel mondo reale. «We mothers stand still so our daughters can look back and see how far they have come». Le madri stanno ferme perché le figlie possano guardarsi indietro e vedere quanta strada hanno fatto. Donne, figlie, forse un giorno madri. La catarsi è completa. E poco importa se gli uomini vicino a noi sono perplessi, o non hanno capito appieno: è un film di donne, fatto da una donna, per parlare alle donne.

Grazie Greta, grazie Barbie.
Dal cuore di una donna, a nome di tutte le donne.

A cura di Margherita Ceci