Morte, e quindi?

Felici e affiatati, i coniugi Maitland (Alec Baldwin e Geena Davis) muoiono nelle prime scene del film a causa di un tragico incidente, salvo poi tornare, da fantasmi, nella loro adorata casa venduta nel frattempo ai Deetz. I due spiriti instaurano sin da subito un rapporto con la giovane Lydia che, a differenza dei genitori, riesce a vederli in un’amicizia tanto solida che, in preda alla disperazione, la ragazza cercherà addirittura di raggiungerli meditando il suicidio. I coniugi defunti cercano in tutti i modi di cacciare dalla loro casa gli orridi vivi che la abitano, ricorrendo agli aiuti più disparati e soprattutto rivolgendosi al disgustoso Beetlejuice (Michael Keaton), letteralmente tradotto “succo di scarafaggio”, un demone specializzato in quelli che definisce “esorcismi di viventi”. In modo divertente, amorevole e brillantemente confusionario la coppia ci prende per mano per portarci in un aldilà come non lo avremmo mai immaginato.

Beetlejuice è il secondo lungometraggio della carriera di un giovane e giocoso Tim Burton, premiata agli Oscar per il miglior trucco e, non a caso, è proprio trucco la parola chiave di questo lavoro. Trucchi sono, ad esempio, quelli degli sposi che cercheranno di spaventare i nuovi inquilini, con risultati discutibili giocati in chiave comica. Trucchi sono quelli del malefico Beetlejuice che cerca di ingannare Lydia per rimanere per sempre nel mondo dei vivi. Trucchi sono quelli della famiglia Deetz, che vuole in tutti modi lucrare sulla tragica vicenda che hanno potuto sfruttare a loro vantaggio. Trucchi poi sono quelli escogitati dagli scenografi che per creare l’effetto fantastico e immancabilmente riconoscibile di Burton, tenendo a mente i trentatré anni che ci separano dalla loro produzione del film, risultano ancora oggi brillanti ed efficaci. E poi, anche se è quasi superfluo nominarli, i trucchi veri e propri (il trucco e parrucco direbbero a Cinecittà) che sono valsi a Ve Neill, Steve LaPorte e Robert Short la statuetta più ambita.

In pieno stile burtoniano, dietro al trucco, al fantastico, allo strambo c’è un messaggio molto più profondo: la sua personale visione della morte. Come ci si può accorgere durante la visione del film, separare vivi e morti all’interno della sua opera non è semplice. Nei gesti, nelle parole e nella presenza scenica essi sono perfettamente identici, non c’è un confine, una differenza sostanziale. C’è solo una iniziale diffidenza degli uni nei confronti degli altri, una separazione di luoghi che va via via affievolendosi nel corso del film fino ad annullarsi del tutto nelle ultime sequenze. Cos’è dunque la morte per Burton? Dolore e pianto probabilmente, ma non una divisione o la causa della fine di un rapporto. Vivi e morti sono sottoposti alla stessa noiosa burocrazia (basti pensare all’ufficio a cui si rivolgono i Maitland), allo stesso straziante dolore (per i morti rappresentato dalla sequenza della reincarnazione negli abiti da sposi) e anche alla stessa, seppur non completa, gioia dell’esistenza.

A cura di Agnese Graziani