Sul perché Coco non è un film per bambini

Riuscire a sfornare anno dopo anno film d’animazione capaci di tenere incollati allo schermo sia grandi che piccini, non è una cosa da poco. Se poi il cartone in questione si rivela concepito per un pubblico adulto, il risultato è a dir poco eccezionale. Vincitore di due premi Oscar e un Golden Globe, Coco non è un film per bambini; o meglio, non è pensato solo per i bambini.

Certo, gli stilemi tipici dei cartoni per l’infanzia ci sono tutti: il lieto fine, l’esaltazione dei valori, l’amore della famiglia e l’importanza del seguire i propri sogni. Eppure, a guardare meglio, l’occhio dello spettatore adulto non può non accorgersi dei continui riferimenti culturali che fanno capolino per tutta la durata della pellicola. C’è il cane randagio che accompagna il piccolo Miguel Rivera nella terra dei morti, e che si rivelerà un alebrije, uno spirito guida del folklore messicano: si chiama Dante, proprio come quel poeta che ha immaginato di compiere un viaggio nell’aldilà. C’è Frida Kahlo, artista anche da defunta, presentata con tratti caricaturali che solo un adulto può cogliere – l’estasi artistica, l’autoreferenzialità, il velato narcisismo. E poi c’è il culto dei morti, delle tombe di famiglia, l’importanza della memoria anche dopo la morte, perché solo la memoria ci tiene in vita. Concetti che parlano ad un pubblico adulto e che, frugando nelle nostre memorie liceali, ci riportano alla mente un solo nome: Ugo Foscolo.

«Non vive ei forse anche sotterra, quando / Gli sarà muta l’armonia del giorno, / Se può destarla con soavi cure / Nella mente de’ suoi? Celeste è questa / Corrispondenza d’amorosi sensi, / Celeste dote è negli umani; e spesso / Per lei si vive con l’amico estinto / E l’estinto con noi, …».

Il culto dei morti nella mente dei suoi cari potrà risvegliare la vita di colui che è defunto. Una corrispondenza d’amorosi sensi che è dote propria dell’uomo, eppure, nonostante sia umana, risulta divina: tramite la capacità di ricordare, chi se n’è andato vive con noi, e noi viviamo con lui. È questa la storia di Coco, che prende il titolo non dal piccolo protagonista – come più facilmente potremmo immaginare – ma dal nome di Mamà Coco, la bisnonna di Miguel. Coco è la bambina della coppia capostipite della famiglia, posta in alto tra le foto sull’ofrenda, l’altare che ogni famiglia messicana appronta per el Día de los Muertos. Della coppia però, è rimasta solo la donna, Mamá Imelda, mentre il viso del padre di Coco è stato strappato. Andatosene di casa per fare il musicista, l’uomo fu cancellato dalla memoria familiare, e la musica bandita dalla casa. Il viaggio nell’aldilà di Miguel cambierà le cose: verrà alla luce la verità su quest’uomo, e si scoprirà il triste destino di chi non viene ricordato nel mondo dei vivi, la morte eterna. Solo la memoria nel mondo terreno può garantire una vita dopo la morte.

Coco è un film che solo in apparenza parla di musica. Agli occhi di un bambino assistiamo alla storia di un ragazzo che sogna di fare il musicista, ma viene continuamente contrastato proprio da coloro che dovrebbero sostenerlo: i suoi affetti, la sua famiglia. Attraverso un viaggio pieno di avventure e peripezie, riuscirà finalmente a riappacificarsi con loro e a riportare la musica all’interno di casa Rivera. Ma se cambiamo punto di vista, indossando gli occhiali dell’adulto, ecco che tutto assume una prospettiva tanto profonda quanto commovente. Non è la storia di Miguel e del suo sogno di diventare un musicista, ma è la storia di una famiglia lacerata per generazioni da un fatto che si rivelerà essere una menzogna. È la storia degli antenati, di coloro che ci hanno lasciato, a cui noi manchiamo tanto quanto loro mancano a noi. È un viaggio alla scoperta delle proprie radici, ma anche un viaggio attraverso i nostri ricordi, i nostri affetti, le nostre emozioni. E alla fine, le lacrime che scendono, sono quelle degli adulti.

A cura di Margherita Ceci