Ci spaventa scoprire le nostre debolezze quanto ci affascina avventurarci in quelle altrui

Howard Ratner è un gioielliere ebreo, padrone di un modesto e angusto negozio di Manhattan, impegnato a districarsi funambolicamente fra la vita quotidiana di padre di famiglia e quella notturna di adultero scommettitore. Il suo lavoro, a tratti patetico e umiliante, non è altro che un tentativo disperato di far galleggiare le sue speranze. I debitori lo inseguono, la famiglia lo ripudia, l’unica donna che sembra amarlo nonostante la sua disperazione si rivela in realtà un’incauta arrivista pronta a scommettere su un futuro più promettente non appena ne ha l’occasione. Ogni tentativo di riscatto di Howard si riversa su di lui costringendolo ad un’umiliante auto-commiserazione.

Quello che Pascoli definisce nido familiare si trasforma per Howard nella sua più claustrofobica trappola, un’arena di scontri, paura e dolore. La sua stessa famiglia, in cui coltiva le origini ebraiche e dove cerca aiuto e conforto, non è altro che il suo primo spietato nemico. La partita, però, cambia allo scadere quando Kevin Garnett, stella NBA, entra nel suo negozio ed inizia a rimescolare le carte della sua vita. Un opale proveniente dall’Etiopia innesca una catena di bugie, tradimenti, inganni e truffe. Howard è consapevole di non aver più nulla da perdere ed è pronto a scommettere qualunque cosa pur di avere un’occasione di riscatto, persino la sua vita.

I fratelli registi Josh e Benny Safdie raccontano in modo adrenalinico la vita di un uomo ridicolo, le patetiche tormenta di un avaro di tutto e pronto a nulla, incastrando ogni frammento della narrazione in un caotico e perfetto turbinio di avvenimenti. La fotografia del film è densa di colore, satura di tensione e buia come il dolore interiore del protagonista. Il montaggio è avvincente, veloce e dinamico, come se la vita di Howard fosse un documentario a cui hanno cancellato ogni frammento noioso. Impossibile distrarsi, avvolti dal ritmo asmatico delle riprese. Come su un campo da basket sono i secondi a fare la differenza ed ogni sequenza è una corsa contro il tempo, una sfida fra Howard ed il destino.

Adam Sandler riesce a vestire i panni del protagonista in modo naturale, quasi scontato, restituendo una rappresentazione accurata e fedele del personaggio, fisicamente balbettante, incerto su ogni movimento e indeciso per natura, marcato dai difetti fisici e umiliato dall’aspetto esteriore. Con una prova attoriale ineccepibile Sandler riesce a stimolare compassione ed empatia, come se anche noi, in fondo, fossimo Howard.

E in fin dei conti siamo affascinati dal protagonista perché morbosamente affamati dal suo fallimento, da un’estasi che nasce dall’umiliazione, una compassione che si trasforma in celebrazione eroica riconosciuta a chi fa di tutto – ottenendo altro che l’insuccesso – per sopravvivere a sé stesso e ai propri demoni, ai propri tormenti e alle proprie tentazioni.

A cura di Alessandro Benedetti