Diaz, ovvero cosa succede quando lo stato di diritto scompare
«Ma che è successo veramente a’ Diaz?» «La più grossa stronzata d’a vita nostra. ‘Na macelleria messicana…». Questo dialogo è tratto dal film A.C.A.B. – All Cops Are Bastards, e a pronunciare quelle parole è Mazinga, personaggio interpretato da Marco Giallini. La Diaz è una scuola di Genova diventata tristemente famosa per quello che successe durante il G8 del 2001. Durante l’incontro dei più importanti rappresentanti del mondo, la città ligure fu teatro di scontri sanguinosi e fatali per tre giorni, dovuti principalmente alla sottovalutazione delle proteste, alle politiche economiche intraprese all’epoca dai partecipanti al G8 e alla criminalità di alcuni individui.
Il film di Daniele Vicari ha lo scopo di trasformare le parole delle sentenze giudiziarie in immagini. In particolare, approfondisce il blitz avvenuto nella scuola Diaz, occupata dai manifestanti il 21 luglio 2001. La pellicola ha una cornice, cioè la Genova di quei giorni, con proteste pesanti, e un primo piano, in cui è posta la narrazione di quella serata infernale. In più, adotta uno stile narrativo che tendenzialmente colpisce molto lo spettatore: mostra sempre lo stesso episodio da punti di vista differenti.
La polizia, animata da un senso di rivalsa dovuta agli accadimenti dei giorni precedenti, irrompe nella scuola su ordini dei superiori. Entrati con la forza, gli uomini si trasformano in bestie e iniziano a manganellare tutto ciò che vedono. I protestanti, trasfigurati in prede impaurite, alzano le mani sopra la testa nella vana speranza che un moto di umanità si manifesti negli aggressori. Ovviamente, questo non avviene. I manganelli volano e il sangue scorre in tutte le direzioni. All’interno della scuola erano presenti anche giornalisti, massacrati come bestie da macello, un povero anziano di Rifondazione Comunista, che si trovava nell’istituto forse per ricordare i vecchi tempi, ma senza dubbio senza intenzioni nocive. Successivamente gli accadimenti verranno paragonati ad una “macelleria messicana”, ma, parafrasando Montanelli: «Fossi messicano mi offenderei». Le scene sono crude e spietate. La violenza è prolungata e l’intero film è decorato da una patina di oscurità, che spinge ad alzare al massimo la luminosità del computer, se quello è il dispositivo su cui lo si sta guardando, e rimanere insoddisfatti comunque. Al termine del blitz, ci si chiede come sia possibile che non sia morto nessuno. In più, si rimane ancora più disorientati dalle azioni successive, in cui la violenza si tramuta da fisica a morale: i poliziotti cercano qualsiasi oggetto possa essere usato come arma, aggiungono due molotov trovate in altra sede e le mostrano ai cronisti, pensando che questi ultimi siano scemi e non vedano i corpi dilaniati portati via dall’ambulanza ad un passo da loro.
Infine, gli episodi in caserma, in cui i manifestanti arrestati tramite pretesti, vengono torturati durante i verbali. Infernale la scena nei bagni, dove una magistrale Jennifer Ulrich, che interpreta una delle tante ragazze all’interno dell’istituto, viene presa in giro dai poliziotti mentre sanguina dai genitali. A quel punto, il sentimento dello spettatore è diviso tra rabbia e rassegnazione. Molte delle critiche fatte al film riguardano l’approfondimento dei fatti della Diaz e il disinteresse per gli altri accadimenti di quei giorni. Noi diciamo: scelte registiche. Può un autore porre la lente di ingrandimento su quello che vuole? Se non fosse così, tanto vale far calare dall’alto ciò che si deve e non si deve filmare. Vicari assicura che tutte le due ore di film siano ispirate dalla lettura delle sentenze definitive che hanno provato a mettere ordine in quel disordine. Quelle sentenze della corte di Cassazione ci dicono che Francesco Gratteri, che nel frattempo era diventato capo del dipartimento centrale anticrimine della Polizia, è stato condannato a 4 anni; gli stessi per Giovanni Luperi, vicedirettore Ucigos ai tempi del G8, in seguito capo del reparto analisi dell’Aisi. Tre anni e 8 mesi a Gilberto Caldarozzi, che in quegli di processi era diventato capo servizio centrale operativo. Il capo della squadra mobile di Firenze Filippo Ferri è stato condannato in via definitiva per falso aggravato, a 3 anni e 8 mesi e all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. In parte convalidata (3 anni e 6 mesi) anche la condanna a 5 anni per Vincenzo Canterini, ex dirigente del reparto mobile di Roma, essendosi prescritto il reato di lesioni gravi la cui presenza aveva portato alla condanna da 5 anni in appello. Infine, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato che l’operato della Polizia di Stato alla Diaz “debba essere considerato come tortura”.
A cura di Alessandro Randi