Anti-nosferatu, ultimo vampiro, primo Dracula
Normalmente, nosferatu, vampiro e Dracula, sono quasi sinonimi, nel senso che i primi due sono termini generali, idealmente rappresentati dal terzo. Nel cinema sono invece tra figure ben distinte. La prima viene ricondotta ad una tradizione filmica prettamente tedesca, in cui i protagonisti sono raccapriccianti creature della notte, dannatamente tangibili, che diventano metafore del male e portatori della peste del mondo. La seconda, evanescente spirito folkloristico di origine rumena, ma “naturalizzato” americano che – al contrario – si fa nel concreto uomo e diventa, paradossalmente, edonismo. A discapito di queste due secolari tradizioni del grande schermo, il primo film che porta davvero in scena Dracula è quello di Coppola, in quanto ponte imprescindibile tra la visione cinematografica e quella cartacea.
Il requisito che lo definisce come tale è ovviamente discrezionale nei confronti dei due filoni appena descritti: si tratta del primo adattamento fedele alla sinossi del libro di Stoker, anche se con una leggera quanto fondamentale aggiunta. Prima di entrare nel vivo della storia, il regista ci trasporta nella Transilvania del XV secolo: qui il principe Vlad, paladino cristiano, torna al proprio castello dopo aver sconfitto la minaccia ottomana in Romania. Al suo arrivo trova la moglie – interpretata da Winona Ryder, che solo dopo conosceremo come Mina Harker – morta suicida, tratta in inganno dai nemici del marito che le avevano falsamente annunciato la caduta del consorte. La Chiesa proclama la dannazione eterna per la ragazza e il cavaliere rinnega il suo Dio.
Nonostante la pellicola proceda secondo la versione tradizionale di Stoker, è sempre più chiara la deriva romantica presa dal film: Coppola fa tesoro delle atmosfere gotiche e orrorifiche del romanzo, ma si diverte a sovvertirle, per la legge del contrappasso. Keanu Reeves è un Jonathan Harker che passa dall’essere vittima compatita a inerme spettatore di un amore mai suo, paradossalmente “impreziosito” dall’insipida prova dell’attore canadese. Antony Hopkins è un Van Helsing deviato e assuefatto dal desiderio sessuale. Il personaggio di Mina – finalmente scissa da Lucy, qui vista come volto della lussuria – è per la prima volta sposa consciamente innamorata di un Dracula molto dandy e infelicemente romantico, che trova la sua ragion d’essere nell’eterna speranza di riunirsi alla consorte. Proprio questo aspetto riesce allo stesso tempo a chiarificare definitivamente l’ambiguità principale del percorso cinematografico americano.
Il vampiro di Bela Lugosi in Dracula (1931) è affascinante e dotato di uno sguardo sovrannaturale, nei fatti e nel carisma del suo interprete, in grado di fare sue le donne. Il conte di Christopher Lee in Dracula il vampiro (1958) vede nella loro “conquista” un’ossessione morbosa, e rispecchia l’ideale iconografico del “bello e dannato”, incarnando uno pseudo-James Dean dell’Est-Europa. Nella realtà dei fatti è però difficile giustificare le loro azioni, dal momento che nell’unione con la vittima l’aspetto sessuale non persiste, forse a causa di un’analogia con il personaggio cartaceo. La versione di Stoker, infatti, risulta obiettivamente ambigua, mostrando sia una natura umana che una bestiale, ma senza sbilanciarsi né verso l’una né verso l’altra.
A rappresentare appieno questo dualismo è nuovamente Coppola. Se da una parte si può considerare come definitiva espressione del Dracula uomo il raggiungimento di un vampiro “a stelle e strisce” in chiave erotica e sessuale; dall’altra, il Dracula bestia trova riscontro nella divergenza rappresentativa con la visione europea. Mentre il vampiro sceglie – al di fuori di pochi tratti – di perseguire solo la dimensione umana, il nosferatu unisce magistralmente le due nature: questa è una bestia orripilante, schiva, chiusa nella sua espressione asettica, nel suo corpo spinto al limite della definizione di uomo. È costretto in questa forma e non potendo evolvere né in una direzione né nell’altra, diventa pura essenza, una metafora. Oldman è una “mummia” corrosa dal tempo, che si mostra uomo affascinante ma anche lupo e vampiro. Due espressioni distanti ma complementari della visione amorosa che è alla base della pellicola: l’una manifestata dall’eleganza romantica, l’altra dalla lussuria più sfrenata e dalla brutalità più efferata.
Se si guarda la pellicola, la regia, il trucco, i costumi e gli effetti visivi artigianali – seppur magistrali – non fanno di questo film un capolavoro. Preso come tale, in realtà, quasi non vale niente: una storia romantica come se ne sono viste tante, inutilmente barocco e forse addirittura kitsch. L’opera di Coppola è una creatura paradossale, non comprensibile dall’interno, per quante volte la si riguardi provando a trovare angolazioni differenti. Il lavoro di un regista “totale”, che si annichilisce e decide di guardare all’esterno, trovando la sua forza nel dialogo con la Storia. In questo senso passa da opera minore – come troppi gli hanno imputato – a cinema esclusivo e raffinatissimo.
A cura di Alessandro Cricca