Easy Rider: la difficoltà di essere liberi 

Siamo onesti: tanti dei nostri comportamenti quotidiani derivano dal ’68; ne siamo i figli, che ci piaccia o meno. Ma non figli del ’68 italiano, che, come capita sempre in questo paese, fu fortemente politicizzato. Siamo figli del ’68 americano e inglese, dei Beatles e di Easy Rider. A noi oggi sembra normale vestirsi con la felpa e le sneakers; pensiamo che tutti alla nostra età lo abbiano fatto. Invece no, non è così. Fino al ’68 dai quindici anni in su ci si vestiva come i padri, con la giacca e la cravatta. Non esisteva l’adolescenza: o lavoravi o studiavi, non c’era tempo per oziare.

A un certo punto, tutto cambiò: quattro ragazzi scapestrati di Liverpool resero il rock popolare e tutto il mondo iniziò a idolatrarli. I giovani uscirono dal ghetto famigliare e si riunirono, iniziando a viaggiare e divertirsi. E tutto ciò fu amplificato dall’America, il Paese più libero di tutti, che covava ancora il sogno americano. Prima ci fu Woodstock, poi On the Road di Kerouac e infine Easy Rider, che non poteva non essere un film indipendente.

Peter Fonda, protagonista e produttore, deve aver litigato pesantemente con il padre Henry, divo di quella Hollywood che il figlio voleva distruggere. Tuttavia, ebbe la fortuna che il padre in quel momento fosse impegnato sul set di C’era una volta il west di Sergio Leone, il quale alla prima distrazione era pronto a urlargli in romanesco che doveva stare lì co’ ‘a capoccia. Il figlio collaborò così con il co-protagonista e co-sceneggiatore Dennis Hopper, che si piazzò dietro la macchina da presa. Scovò uno sconosciuto Jack Nicholson, che doveva ancora scoprire che quella che credeva essere sua madre era in realtà sua nonna e quella che credeva essere sua sorella era in realtà sua madre (aneddoto vero, sperando che i lettori non ci prendano per pazzi). In mezzo a quella confusione familiare, il giovane Jack scappò provando a diventare regista, ma Peter Fonda lo fece virare sulla professione di attore, scelta per cui non lo ringrazieremo mai abbastanza.

Hollywood non capì assolutamente nulla, bigotta com’era in quel periodo, del film che Fonda e Hopper volevano realizzare. Anche perché la sceneggiatura che presentarono erano due fogli bianchi su cui erano disegnate delle motociclette e poco altro. Non c’era praticamente nessuna battuta, in quanto, nell’ottica di Peter e Dennis, gli attori dovevano improvvisare. La cosa più stupefacente del film, dal punto di vista tecnico, sono le inquadrature, che riprendono molto i videoclip dei Beatles. L’occhio del ’68 aveva, del resto, quel tipo di messa a fuoco, intorpidito dalla marijuana e dall’LSD. L’erba nel film viene totalmente sdoganata. Nelle opere precedenti, tutti i personaggi che fumavano uno spinello seguitavano a realizzare azioni criminose. Noi sappiamo, sessant’anni dopo, che non c’è rappresentazione più erronea dell’erba, la quale provoca calma e non violenza. I tre protagonisti di Easy Rider la fumarono veramente, facendosi tante di quelle risate che alla fine si decise di lasciarle nella pellicola. Verso la fine del film, si fa uso anche di LSD, mostrandoci in questo caso i deliri e le allucinazioni in prima persona, che poi avremmo rivisto in tanti altri casi come in Paura e delirio a Las Vegas.

Ma il film ha un significato ancora più profondo. I due protagonisti credono così tanto in ciò che fanno e rappresentano da lasciarci la pelle. Vivono con un’idea della vita e la inseguono tutto il tempo, morendo per la libertà di essere diversi. Chi di noi, invece, oggi, avrebbe il coraggio di vivere e morire per quella libertà?

A cura di Alessandro Randi