Elvis: storia (manipolata) di una leggenda

Siamo in una buia stanza di un albergo, nella viziosa notte di Las Vegas: un uomo suona ad un pianoforte a coda cantando una canzone malinconica, illuminato in volto dalle luci della città. Amareggiato e deluso dalla vita, non ha più nulla da perdere. Parallelamente, qualche piano sotto di lui, un vecchio siede nel suo studio tappezzato di poster, gli occhi fissi nel vuoto mentre fuma un sigaro. Aggiungiamo qualche dettaglio alla scena: l’uomo al pianoforte è un ormai stanco Elvis Presley e la stanza è una gigantesca suite del lussuoso hotel dove l’artista alloggia da anni; si aggrappa all’alcol e alle droghe come se fossero l’unico modo per continuare a vivere, lontano dalla figlia e da Priscilla. Il vecchio, invece, è il Colonnello Parker, il suo manager: uomo dalla dubbia morale, dedito al gioco ed attaccato al denaro, il suo unico vero affetto.

È la voce del Colonnello (interpretato da un quasi irriconoscibile Tom Hanks) ad introdurre il personaggio di Elvis (Austin Butler): prima ancora di raccontare la sua storia, però, l’uomo si discolpa dalle accuse a lui rivolte dopo la morte del cantante. «Io non l’ho ucciso. Io ho creato Elvis Presley», afferma, con un tono che vuole sembrare innocente ma che risulta solamente sospetto. La storia viene narrata da un Colonnello in fin di vita, che decide di esporre la parabola di Elvis, dall’infanzia in un quartiere “nero” di Memphis alla prematura morte: tutto, però, appare distorto, manipolato dalla sapiente mente di un imbonitore. Al Colonnello non interessa, in fin dei conti, raccontare la pura verità, ma la sua versione dei fatti, il suo punto di vista di una storia che dovrebbe essere invece riferita da Elvis in persona.

Ancora una volta Baz Luhrmann (Romeo + Juliet; Moulin Rouge!; Australia; Il Grande Gatsby) pone di fronte alla telecamera personaggi in cerca di un riscatto, di una vita diversa da quella che devono sopportare: in alcuni casi, quando riescono nell’intento, sono costretti ad interpretare delle parti, ad indossare delle pirandelliane maschere che nascondono uomini tristi e soli, imprigionati in una gabbia dorata che si sono creati da sé (The Great Gatsby ne è un palese esempio). Talvolta, il riscatto è amaro e necessita di un sacrificio. Nel caso di Elvis, la rivalsa sociale avviene: con il suo successo permette alla sua intera famiglia di cambiare vita e può finalmente regalare alla madre la tanto agognata Cadillac rosa. Tutto questo, però, al prezzo di un lento e graduale declino nella fossa dell’infelicità, in cui il Colonnello gioca un grande ruolo.

Elvis è sempre a metà tra due poli opposti, che non hanno intenzione di comunicare l’uno con l’altro. Da una parte, lo attrae la black community di Memphis, dalla cui musica viene stregato; dall’altra deve fare i conti con la puritana cultura bianca alla quale, nonostante tutto, appartiene. Il dilemma esistenziale del cantante viene facilmente risolto dal suo manager: Elvis vorrebbe essere un supereroe, eppure non è altro che un’attrazione, «il più grande spettacolo del mondo». Il desiderio di stare vicino ai suoi fan è sempre fortissimo, ma è spesso destinato a non essere accontentato: i più lo ricorderanno solamente tramite la bidimensionalità di uno schermo televisivo, che lo ha costretto ad essere una semplice immagine senziente, un’icona e non una persona.

«Chi sei tu? Io sono te e tu sei me. Noi siamo uguali, io e te: due strambi bambini soli in cerca dell’eternità», spiega l’imbonitore al musicista: in parte è vero, i due hanno più somiglianze di quanto si voglia ammettere. In fin dei conti, non c’è un Elvis senza Colonnello, e non c’è un Colonnello senza Elvis: ognuno è stato la fortuna dell’altro, per fama e per denaro. È un bifrontismo da cui non si può scappare: non si può scindere Elvis dal suo manager in quanto facce della stessa medaglia. È anche questo un punto di forza della narrazione del film: la consapevolezza che, se si vuole parlare di Elvis, non si può fare a meno di far rientrare nelle dinamiche della storia anche il personaggio del Colonnello Parker.

Austin Butler non interpreta Elvis, lo diventa: l’attore viene quasi posseduto dall’artista maledetto che spesso ricorda un James Dean vissuto qualche anno in più. Esordisce sul palco, e sullo schermo, sulle note dell’Introduzione del poema sinfonico wagneriano Così parlò Zarathustra (1896), famosa tra cinefili per la sua associazione a 2001: Odissea nello spazio (Kubrick, 1968). Come per il film di Kubrick, le note di Wagner segnano l’alba di una nuova era nella carriera di Butler: interpretare un’icona della musica come Elvis Presley potrebbe facilmente risultare sgradevole, eppure l’attore californiano calza a pennello i panni del Re del Rock ’n Roll.

Appena prima dei titoli di coda, un filmato d’epoca ci mostra un Elvis in carne ed ossa mentre cita una canzone di Vincent Youmans: «I learned very early in life that “Without a song, the day would never end; without a song, a man ain’t got a friend; without a song, the road would never bend – without a song”. So I keep singing a song». Elvis has left the building, si diceva: la sua musica no, e lo testimonia, tuttora, Baz Luhrmann.

A cura di Claudia Maria Baschiera