Io sono il mio nemico!
Adam Bell (Jake Gyllenhaal) è un professore di storia di Toronto che conduce una vita monotona e ripetitiva. La ruota della vita si inceppa quando scopre che un attore in un film che gli hanno caldamente consigliato è spaventosamente uguale a lui. Non si tratta di una semplice somiglianza: è un sosia. Il grande topic del film di Villeneuve è il tema del doppio. Il professore, infatti, viene sconvolto dall’idea che un essere umano possa apparire identico a lui. La concreta esistenza di un sosia implica uno scombussolamento interiore per vari motivi: è realmente spaventosa l’idea di vedere fisicamente un tuo doppio nuotare nella confusione dell’esistenza, poiché ci rende consapevoli di quanto la nostra personalità possa spezzettarsi fino all’annientamento dell’identità. Ho un fratello gemello? Sto vivendo nel mondo reale o nella finzione? Sono queste un po’ le preoccupazioni che si innescano a causa di un’evidenza carnale di un doppelgänger. Il film, tratto dal romanzo L’uomo duplicato di José Saramago, si fa sempre più ambiguo ed enigmatico fino ai minuti finali senza nessun calo di tensione, mantenendo il grado di adrenalina sempre elevato.
Ma come lo si può interpretare Enemy? È un sogno? Un’esplosione della schizofrenia del protagonista? Certamente nelle nostre fantasie accade spesso di desiderare di essere qualcun altro. Desiderare un’altra vita, un’altra professione, un’amante che non sia incinta perché non ci sentiamo pronti per adempiere al dovere della paternità. Chi dei due sosia ha “creato” inconsciamente un altro al di fuori di sé stesso è proprio l’attore e non il professore Adam Bell.
Il film presenta una figura simbolica importantissima a cui è doveroso sottoporre la nostra attenzione. Si vedranno degli aracnidi comparire all’interno di Enemy. Indicativamente c’è un ragno nell’incipit, un ragno nella parte centrale e nei minuti finali. Il protagonista a un certo punto sembra avere una visione: un ragno gigante che cammina sulla città di Toronto. Quest’ultima immagine di delirio non è altro che una bellissima citazione a una scultura magnifica di Louise Bourgeois, Maman, situata nella città spagnola di Bilbao. Si tratta di una gigantesca statua in bronzo, alta dieci metri e larga altrettanto, raffigurante un enorme ragno. Maman è il grande omaggio alla maternità, al mondo femminile, «il ragno è un’ode a mia madre, lei era la mia migliore amica»: dichiarò la famosa scultrice. Un’iconografia stupenda, poiché l’installazione restituisce un forte senso di protezione piuttosto che di ribrezzo nei confronti dell’animale a otto zampe. Non a caso, anche nel film di Villeneuve il ragno è riconducibile all’universo femminile.
La splendida fotografia color seppia, alimentata da una scenografia spoglia e ambientazioni cupe, rispecchia alla perfezione la psiche del protagonista, il monocromatismo del film è adatto alla monotonia della sua vita. Il punto forte, però, è proprio Jake Gyllenhaal: la conferma di un talento con pochi eguali all’interno del panorama contemporaneo. Uno degli attori più incisivi della sua generazione che ci dona un’interpretazione spaventosa, complicatissima e incredibilmente empatica.
A cura di Matteo Malaisi