Everything Everywhere All At Once: la simultaneità come esperienza ordinaria
La simultaneità è un’esperienza a cui oggi siamo sempre più abituati: fruire spazi e tempi distanti dal nostro mentre sediamo comodi nelle nostre case sembra una possibilità intrinseca al nostro mondo globalizzato. Il filosofo Marc Augè lo definirebbe «Villaggio Globale»: una dimensione raccolta e limitata, capace però di contenere nella sua piccolezza il mondo intero, atrofizzando tempi e distanze. Con il proliferare di account, ID, e avatar possiamo moltiplicarci e trasporci in surrogati potenzialmente infiniti della nostra identità e, soprattutto, farlo contemporaneamente allo svolgersi della nostra vita corporea. Insomma, possiamo essere tutto, ovunque e ed esserlo tutto in una volta.
Sembra partire dai sintomi della nostra attualità, l’irresistibile delirio narrativo di Everything, Everywhere, All at Once di Daniel Kwan e Daniel Scheinert, che, con undici candidature, guida la lista di opere in lizza per la novantacinquesima cerimonia degli Oscar. La protagonista Evelyn è la proprietaria di una lavanderia a gettoni, costretta a barcamenarsi tra mille problematiche familiari, lavorative ed economiche: il rapporto teso con la figlia della quale non accetta l’omosessualità, quello ormai stinto e annacquato col marito sbadato e inconcludente, ma soprattutto i tanti debiti della loro attività commerciale, personificati dall’addetta al fisco, interpretata da una Jamie Lee Curtis inedita. Questa trama realista e scanzonatamente disperata viene interrotta dal multi-verso, un affastellamento di realtà spazio-temporali parallele proprio come quelle in cui viaggiano Doctor Strange e l’ultimo Spider-man, qui ad uso borghese, in un ufficio adibito al fisco e alla contabilità.
Da qui, la vita dei personaggi si rifrange in infinite varianti potenziali intrecciate le une con le altre, in un provocatorio gioco di divaricazione narrativa che muove lo spettatore in una molteplicità di “quadri” citazionisti differenti. Come Denis Levant in Holy Motors (Carax, 2012), Michelle Yeoh è una e al contempo tantissime individualità. Architrave espressiva di tutto il film, l’attrice condensa nella sua interpretazione – credibile sia nel versante drammatico, sia nell’agonismo delle parti action – tutte le peculiarità del film: la capacità di avvicinare l’attualissimo immaginario virtuale alle problematiche di tutti i giorni, l’ordinario al visionario, l’abitudine all’immaginazione evasiva. Così, il multi-verso di Everything, Everywhere, All at once diventa un modo per fuggire dalla realtà e dai suoi problemi, ma anche uno strumento per risolverli, come a dire che a tutto c’è una soluzione, a patto che si riesca a cambiare prospettiva sulle cose.
Raccordi tematici e formali uniscono una linea narrativa all’altra, mescolano e dissacrano i generi – dalla tradizione del melò familiare hongkongese alla commedia demenziale –, scardinano le gerarchie, i rapporti di forza e la caratterizzazione dei personaggi, delineando un inno alla complessità del reale, che, nonostante le tinte avveniristiche e inquietanti, risulta tenero e confortante nel suo tenere al centro il dato umano ed emotivo.
L’espediente del multi-verso e la sua conseguente orchestrazione di spazi e tempi diversi traspongono in chiave pop la rifrazione identitaria a cui ogni giorno ci sottoponiamo e forse profetizzano un futuro più vicino di quanto crediamo.
Nonostante la natura centrifuga, eccessiva, sfuggente di questa matrioska di realtà concentriche eppure indipendenti, Everything, Everywhere, All at once è un film solidamente unito da un montaggio armonico, coreografico come le leggiadre battaglie di Kung Fu tra Yeoh e Lee Curtis. L’essere umano frammentato può portarsi in salvo a patto che conservi il senso del suo legame intimo con il reale, sebbene questo sia sempre più caotico, difficile, rutilante.
A cura di Matteo Bonfiglioli