Il dolore di un’amicizia, il dramma di chi voleva tutto, perdendo sé stesso
Foxcatcher, come accade in tante storie cinematografiche, racconta di un’amicizia, della sua evoluzione e delle sue conseguenze. Il sentimento più nobile e puro raccontato in questo film nasconde però la disamina di una follia, un dramma sportivo che tinge di orrore le pagine della cronaca nera, la storia di un moderno Icaro, che voleva volare toccando il cielo ma brucia nella sua mitomania. Un’amicizia totalizzante, feroce e sincera, un’amicizia dolorosa e vera.
Il film del regista Bennett Miller – già noto al grande pubblico per l’opera Moneyball – vuole raccontare una storia vera ma caduta nel dimenticatoio moderno, quella dei fratelli Schultz, Mark e David. Cresciuti nell’America del dopoguerra, i giovani Schultz sono campioni olimpionici, campioni della lotta libera. Il miliardario John Du Pont, un fanatico di sport, nota i giovani per il loro talento e decide di investire sul loro futuro per iniziare il progetto – nutrito dal suo ego – di realizzare una squadra sportiva americana capace di competere con atleti di tutto il mondo.
Dove Moneyball era una perfetta parabola hollywoodiana sulla volontà umana capace di superare ogni ostacolo, Foxcatcher è la storia di due anime in pena, persone solitarie e complessate incapace di rapportarsi al prossimo a un livello considerato accettabile dalla società. Una vicenda apparentemente innocua, apparentemente edificante, ma che nasconde sfumature cupe di avidità, mitomania, crudeltà, spietatezza.
Al contrario di Moneyball, dove lo sport è protagonista ma in modo trionfale, questa volta Miller si avventura alla regia di una storia drammatica, a tratti ingiusta, dove i personaggi – interpretati da un cast stellare e impeccabile – riescono a comunicare con loro spettatore grazie al loro “non-detto”. È proprio l’assenza di palesamento delle emozioni che si riesce ad entrare in empatica connessione con lo stato d’animo dei fratelli Schultz, in cui si riesce a scavare nella mente malata di Du Pont.
Mark Schultz è un uomo silenzioso, imperturbabile ed enigmatico, probabilmente vittima di depressione e imprigionato da un vortice di negatività. È l’epifania di Du Pont a cambiare completamente la vita, le ambizioni e le speranze di Mark, che ritrova nello sport e nella figura paterna di DuPont un’ancora di salvezza. Schultz si sente esaltato, celebrato e finalmente apprezzato come mai prima da quello che lui stesso definisce un «padre mancato», amato in modo incondizionato come mai gli era successo prima. L’intervento salvifico di Du Pont non nasconde però la sua anima tormentata, ferita da disturbi psichici e profondamente sola, abbandonata. Il loro rapporto è l’anima del film, una narrazione che ruota esclusivamente attorno a questo rapporto duale e totale, che porta lo spettatore a chiedersi, assistendo agli eventi, che cosa possa dividere e lacerare un rapporto così vero e profondo, fino allo strenuo.
Un film corposo, fisico e imponente, rappresentato in modo esemplare dalla regia di Miller, sempre rigorosa e precisa, simile a quanto già visto in Moneyball. La fotografia, ovattata e satura, regala un’atmosfera tipica della stagione post guerra americana. Un film interessante quanto denso, non privo di errori ma ugualmente appassionante e avvincente, premiato da un cast eccezionale che non delude ma al contrario esalta la narrazione.
A cura di Alessandro Benedetti