Fratello, dove sei? A spasso con Ulisse e i fratelli Coen

Ulysses (George Clooney), Pete (John Turturro) e Delmar (Tim Blake Nelson) evadono dai campi di lavoro, intenti a raggiungere un ricco tesoro per poter ricominciare a vivere. Joel ed Ethan Coen firmano una grottesca rivisitazione dell’Odissea, ambientandola nel Mississippi, durante gli anni ‘30, abbattuto dalla Grande Depressione, permeato da una mentalità razzista e ricco di tanti strambi personaggi. Fratello, dove sei? È l’ennesima conferma dell’estro estremamente innovativo dei due registi in grado di mescolare i generi in maniera geniale, passando dalla commedia, al dramma, inserendo persino momenti tipici del musical.

Un film che potrebbe in superficie risultare leggero e godibilissimo, si rivela un concentrato massiccio di contenuti filosofici e spirituali trattati con estrema raffinatezza, avvalorati da una sceneggiatura efficace, ricca di dialoghi profondi. Tra disavventure e colpi di fortuna, i tre personaggi compiono un tortuoso cammino tra paesaggi rurali – splendidamente fotografati da Roger Deakins -, seppur il viaggio non si limiti soltanto a un moto fisico, bensì s’intuisce presto che si tratta di un percorso nell’interiorità dell’individuo. L’incipit di grande impatto mostra dei prigionieri intenti a frantumare pietre a ritmo di martello, intonando una tipica worksong (classico canto a cappella, cantato dagli schiavi delle piantagioni, da cui nascerà il jazz e il blues). Successivamente, insieme ai tre personaggi, veniamo introdotti nella storia da un vecchio cieco alla guida di un carretto che funge da indovino, nonché un richiamo immediato a Tiresia: personaggio cardine della tragedia greca condannato alla cecità, tuttavia capace di predire il futuro. Nella cultura classica, quest’archetipo assume un valore profondo, poiché, chi è privo di vista è considerato più capace di approfondire una dimensione visiva rivolta verso la propria interiorità. La dimensione uditiva, invece, è avvalorata dalla splendida colonna sonora di T. Bone Burnett.

I riferimenti all’Odissea sono entusiasmati e originali: dalla bellissima scena dell’incontro con tre seducenti donne, fino ad arrivare alla comparsa del venditore di Bibbie, novello Polifemo, interpretato da un esilarante John Goodman. Pete e Delmar corrono incontro alla redenzione spirituale, facendosi purificare da un sacerdote nelle acque di un fiume. Scena provocatoria nei confronti di una ritualità legata alla ripetizione ridondante di un gesto fine a sé stesso, il quale potrebbe potenzialmente contribuire a un futuro saturo di buone azioni, ma che, difatti, non innesca un autentico pentimento. Dunque, senza la nostra volontà ci precludiamo la possibilità di cambiare moralmente, poiché siamo esseri contraddittori, totalmente liberi e al contempo, imprigionati dai nostri limiti mentali. Quello dei Coen è il dipinto di un mondo in cui l’individuo vive eternamente in conflitto con la società, per questo motivo, l’uomo si ritrova avviluppato in un vortice di relazioni intrattenute con la politica, con la famiglia, con la religione, con la criminalità, con l’economia e con tante altre relazioni che compongono la vita umana.

L’incantevole scena in cui Ulysses suona sul palco con i suoi compagni è una celata dichiarazione d’amore dei fratelli Cohen nei confronti dell’arte. L’arte prevarica ogni confine, seppur mercificata e utilizzata per scopi propagandistici, se essa realmente riesce a emozionare e a insinuarsi nel cuore delle persone, oltrepassa ogni limite umano trasportandoci, finalmente, in un territorio tutto nostro, per qualche attimo, dove probabilmente ci dimentichiamo di esistere, sia come individui che come parte di una comunità, perché è solo nel mondo dei sogni che possiamo creare qualcosa di veramente unico e personale. È anche vero però, che nelle scene finali i Coen fanno affondare ogni tipo di convinzione morale ed etica, lasciandoci inebetiti, avvolti in un’espressione condita da un sorriso amaro. Infatti, l’epilogo mostra come la famiglia, in fondo, il nostro cantuccio sicuro e confortante, dove gli affetti sono realmente qualcosa per cui vale la pena vivere e compiere sacrifici, sia un legame costrittivo a cui ci sentiamo spesso obbligati e forzati dalle convenzioni sociali, senza nascondere tutti gli impicci che la famiglia infine può recare all’individuo, perché essa è sinonimo di amore, ma l’amore è un fenomeno composto da una duplice faccia: felicità e sofferenza. D’altronde, come ci suggerisce Tiresia intendo a proseguire lungo i binari dritti del treno, la vita non è altro che un viaggio da percorrere, nonostante tutto, bisogna sempre andare avanti.

A cura di Matteo Malaisi