Gli spietati: lo spettacolare tramonto del genere western

La prima volta che Clint Eastwood incontrò Sergio Leone, l’attore era solo un belloccio che aveva interpretato qualche soap opera da riposo pomeridiano e il regista era nei guai, perché non trovava finanziamenti per i film che voleva fare. Appena arrivato a Cinecittà, Leone si avvicinò all’attore e lo squadrò per cinque minuti, in silenzio assoluto. Poi si girò verso la troupe e ordinò: “Portatemi un poncho… metteteglielo addosso… prendete anche una barba… scusa Clint, eh… portateme anche ‘n cappello… da damerino… ecco…”, poi si immobilizzò e riprese a guardarlo, per altri cinque minuti. Alla fine, tirò fuori dal taschino un sigaro, un toscanello, e lo ficcò in bocca all’attore, che ribatté: “No, no, Sergio… I don’t smoke…”. Leone, serafico, indicando il sigaro, rispose: “A Clint… che famo? Lasciamo a casa il protagonista?”.

I due si saranno parlati direttamente una quindicina di volte al massimo: Leone non sapeva l’inglese ed Eastwood non sapeva l’italiano. Insieme hanno girato tre film: Per un pugno di dollariPer qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo, cioè quella che sarebbe passata alla storia come la Trilogia del dollaro. In tutti e tre, Clint Eastwood recita nel ruolo del protagonista: uno spietato cacciatore di taglie, cinico e antieroico, che ammazza a sangue freddo. Leone, per prendere in giro il suo attore, diceva: “Clint Eastwood ha due espressioni: con il cappello e senza il cappello”. Partito da perfetto sconosciuto, quando tornò in patria, Eastwood fu accolto da una pazzesca fama popolare: tutti i bambini, per carnevale, indossavano un cappello, un poncho e aggrottavano la fronte, fingendosi l’Uomo senza nome.

Poi Leone cambiò tema: dal western cinico passò ad un cinema diverso, più intimo. Non c’era più spazio per Clint Eastwood nei nuovi lavori del regista italiano. Clint tornò in America, si divertì per tutti gli anni ’70, ma la critica iniziò piano piano a pungerlo: effettivamente, ciò che diceva su di lui Leone era vero. Per usare un eufemismo, l’espressività non abbondava nel giovane attore. Timidamente, nella sua camera, iniziò a scrivere la sceneggiatura di un film western. Ogni tanto si fermava, la rileggeva, ma non lo convinceva. La chiuse in un cassetto della scrivania e la lasciò lì. Passarono gli anni e Eastwood, nonostante i tanti lavori fatti, continuava a vivere della fama proveniente dagli Spaghetti western di Leone. L’attore impiegò il suo tempo con la saga Dirty Harry, che ruotava attorno alle avventure dell’agente Harry Callaghan. La serie di film ebbe tantissimo successo, ma fu più volte stroncata dalla critica.

Il 30 aprile 1989, a Roma, morì Sergio Leone, a causa di un arresto cardiocircolatorio. Eastwood e Leone, dopo Il buono, il brutto e il cattivo, si erano visti sporadicamente. Non avevano litigato, avevano solo preso strade differenti. L’attore, quel giorno, sentì qualcosa dentro, qualcosa che ribolliva, che si infiammava… Tornò a casa e quella sceneggiatura scritta tanti anni prima iniziò a chiamarlo. La rilesse, ne modificò qualche parte e, consumato dal desiderio di omaggiare il vecchio amico, decise di produrre, dirigere e interpretare quel film. Il titolo era Gli spietati.

Nella pellicola, Eastwood impersona William “Will” Munny, un vecchio fuorilegge che giunge nel villaggio di Big Whiskey, accompagnato da altri due banditi, per uccidere due uomini con una taglia sulla testa. A dire il vero, la taglia non è ufficiale, anzi. I due uomini avevano sfregiato una prostituta e le altre donne del bordello si erano accordate per pagare mille dollari a chi li avrebbe uccisi. D’altra parte, lo sceriffo della città, dal buffo nome Little Bill Daggett, aveva stabilito una ricompensa in denaro che i due avrebbero dovuto pagare al gestore del bordello ed era fermamente convinto ad evitare qualsiasi altro tipo di risarcimento. Munny si ripromette di non uccidere per tutto il film, a causa delle terribili esperienze del passato. Tuttavia, in una notte piovosa e tenebrosa, un ritrovato Eastwood spalanca le porte del saloon in cui si trova lo sceriffo, reo di aver torturato e ammazzato uno dei suoi due complici, e uccide tutti i presenti.

Clint dimostrò così, forse per la prima volta, le sue abilità d’attore e sceneggiatore, portando sullo schermo un film molto intimo, in cui il protagonista non è solo una maschera, ma un uomo con grandi conflitti interiori. Munny, infatti, combatte con l’alcool, con il ricordo della moglie morta e con il tentativo di dimostrarsi un uomo diverso. Eastwood ripropose il genere western, che ormai era morto e sepolto, e lo portò ai massimi livelli, ottenendo ben nove candidature all’Oscar. Per il genere segnò un incredibile tramonto; per l’attore un grandissimo passo avanti nella carriera da regista. Qual è in fin dei conti la morale del film? Forse che, nonostante i numerosi tentativi, si resta sempre ciò che si è. Non si cambia, nella vita. Una visione, del resto, molto cinica e nichilista, proprio come piaceva a Leone.

A cura di Alessandro Randi