Gli spiriti dell’isola ci parlano di noi

Giunto al suo quarto lungometraggio, Martin McDonagh torna nella terra dei suoi padri, l’Irlanda, per un omaggio ironico e grottesco ambientato nelle lande desolate e magiche del Paese. I protagonisti (Farrel e Gleeson) non sono più i colleghi assassini che si nascondono tra le strade acciottolate di Bruges come nell’opera prima del regista (In Bruges – La coscienza dell’assassino, 2008), ma sono due abitanti dell’isola immaginaria ma non troppo di Inisherin, amici di lunga data e poi all’improvviso non più.

Uno dei due (Colm/Gleeson), infatti, rifiuta categoricamente l’amicizia e la vicinanza dell’altro (Pàdraic/Farrel) definendolo noioso e inutile, preferendo dedicare la sua vecchiaia alla composizione di musica folk per il violino. Questa richiesta risulta totalmente infondata all’amico che cerca in ogni modo di recuperare il rapporto, anche quando l’altro lo minaccia di tagliarsi un dito ogni volta che proverà a rivolgergli la parola. Così accade: una serie vicende ridicole e insensate porteranno a tragedie ben più grandi e alla costruzione di una favola dark e satirica basata sul teatro dell’assurdo.

Il titolo originale The banshees of Inisherin fa riferimento a delle creature fantastiche appartenenti al folklore irlandese: spiriti di donne che presagiscono la morte di un membro di una famiglia a cui sono legate. Nel film esse sono incarnate dalla signora McCormack, un’anziana abitante del villaggio che osserva e conosce tutti. È lei a preannunciare la tragedia imminente e a compiacersi delle disfatte altrui.

Ci troviamo in un luogo sperduto, un’isola nell’isola, nell’aprile 1923 durante la guerra civile irlandese, e fin da subito la fine dell’amicizia tra i due protagonisti diventa il pettegolezzo più discusso. Essa si trasforma in una guerra personale di cui l’intero paesino segue le vicende: accadimenti che non hanno una morale né una motivazione o un significato, ma sono semplicemente dettati da una scelta specifica di un solo personaggio che sente il peso del tempo e dell’inutilità della vita.

Colm decide infatti di sfruttare gli anni che gli rimangono per comporre musica, pur sapendo che senza dita non potrà più farlo. È soltanto desiderio di cambiamento, di essere ricordato oppure voglia di adrenalina? Gli altri personaggi ne subiscono gli effetti, a partire dalla sorella di Pàdraic che sceglie di lasciare l’isola per iniziare a lavorare. L’unico che sembra non esserne influenzato se non passivamente è proprio Pàdraic che viene definito da tutti come un “brav’uomo”, uno di quelli che si rivolge agli animali quando è triste. Fino a quando il suo asinello muore e smette di esserlo, dando fuoco alla casa di Colm con l’intenzione di protrarre questo dissidio, come fosse una metafora della guerra civile che si intravede all’orizzonte.

A cura di Emma Onesti