L’anima unica, autentica, nativa, dell’America Latina

«Da Buenos Aires alla Patagonia, e poi il Cile. Quindi a nord lungo le Ande, la colonna vertebrale del continente, fino a Machu Picchu. E da lì al lebbrosario di San Pablo, nell’Amazzonia peruviana. Destinazione finale: la penisola di Guajira, in Venezuela». Le prime battute di Ernesto Guevara lanciano un amo a cui non si può fare a meno di abboccare. Ci sembra di vederli già, quei due giovani scanzonati, in sella alla Poderosa (una Norton 500 M18 del 1939, non troppo in forma) per fare il giro dell’America Latina. Pregustiamo i paesaggi, le avventure, i momenti di difficoltà, gli imprevisti che fanno capolino in ogni viaggio. La regia non ci delude, e in un attimo ci troviamo catapultati con i nostri Don Chisciotte e Sancio Panza nella Pampa, la prateria argentina che circonda Buenos Aires. Il destriero dei due avventurieri, la Poderosa, non fa in tempo a mostrare i primi acciacchi che già attorno a noi lo scenario cambia: siamo nella steppa della Patagonia. E le Ande? Eccole poco dopo anche loro, con la neve gelida in piena estate. Manca un ultimo paesaggio a questo viaggio nella geografia sudamericana, che non tarda ad arrivare: l’Amazzonia.

I diari della motocicletta non vuole raccontare l’America Latina, la vuole mostrare. Gli scenari, la natura, il contorno di questo viaggio sono i veri protagonisti della pellicola. Immersi in paesaggi che cambiano in continuazione, Ernesto “Fuser” Guevara e Alberto Granado rappresentano due giovani in cui tutti ci siamo identificati, almeno una volta nella vita: pieni di voglia di vedere il mondo, intraprendono un viaggio on the road destinato a cambiarli profondamente.

Il film è tratto dai diari di viaggio Latinoamericana (Notas de viaje), del futuro Che Guevara, e Un gitano sedentario (Con el Che por America Latina), di Granado. Il mito del generale cubano potrebbe far pensare ad una pellicola incentrata sulla sua evoluzione personale, che mostri come il giovane Ernesto si sia trasformato ne el Che: niente di tutto ciò. Walter Salles riesce a calibrare perfettamente il racconto di un’America fatta di nativi e paesaggi, con l’animo di due ragazzi che prende man mano coscienza delle ingiustizie sociali. Lo sviluppo dell’ideale politico c’è, ma è appena accennato, anzi, suggerito all’occhio dello spettatore. L’Ernesto Guevara che vediamo nell’ultima scena è un Ernesto profondamente scosso nell’animo, che sta iniziando a prendere coscienza di chi vuole essere. Eppure, quando lo schermo diventa nero, non è la sua evoluzione a rimanerci impressa. È l’America del Sud, un’America che attraversa un emisfero, un’America fatta di un’infinita varietà di climi, paesaggi e persone. Soprattutto persone: native, ridotte per lo più in povertà, sfruttate dal potere americano; o sei ricco o sei povero, e dove nasci rimani. Quando lo schermo diventa nero, sono i volti di quelle persone a rimanerti impressi.

C’è un punto preciso del viaggio che segna una cesura tra la spensieratezza e la presa di coscienza. Non è un caso che da quel momento in poi la pellicola sia intervallata da queste simil-fotografie, inquadratura fermissima, persone immobili, bianco e nero. È Ernesto che vuole imprimere nella mente quelle immagini, ma siamo anche noi, che insieme a lui prendiamo coscienza di una situazione sociale.

È il 1952 quando i due centauri salgono in sella alla Poderosa. Tra il 1977 e il 1984, Sebastião Salgado – uno dei più grandi fotoreporter dei nostri tempi – realizza Other Americas, un lungo reportage delle campagne sudamericane. Nel film di Salles c’è molto Salgado, e nelle fotografie di Salgado c’è molto Selles: è l’anima unica, autentica, nativa, dell’America Latina. Ernesto Guevara, d’altronde, l’aveva già capito: «La divisione del Sud America in diverse nazioni è falsa, è illusoria, è completamente fittizia. Costituiamo un’unica razza meticcia, dal Messico fino allo stretto di Magellano».

-A cura di Margherita Ceci