Il buco: la dimostrazione che il socialismo non può funzionare

Da quando le produzioni Netflix hanno abbandonato il puro scopo commerciale e hanno iniziato a investire i loro capitali nel cinema d’autore, tra il catalogo della piattaforma si possono trovare diverse perle, alcune finite, purtroppo, nel dimenticatoio. La pellicola di Gaztelu-Urrutia, Il buco, si è subito guadagnata un posto nei cuori della critica e secondo noi non ha mancato di influenzare la serie dell’anno Squid Game (sempre prodotta da Netflix). Entrambe le opere mostrano infatti scenari distopici, in cui la filosofia politica viene presa e applicata in maniera fortemente realistica.

In un’atmosfera claustrofobica, il protagonista Goreng, interpretato da Iván Massagué, apre gli occhi in una prigione costruita su più piani, chiamati livelli, e con un buco al centro in cui ogni giorno viene fatto passare una piattaforma stracolma di cibo. In questo modo, chi si trova al primo livello ha tutta la tavola a disposizione, chi si trova all’ultimo non mangia niente. Considerando che si cambia livello casualmente ogni mese, diciamo che la dea bendata può salvarti o rovinarti la vita. Per condire il tutto con un po’ di pepe, ogni prigioniero condivide la stanza con un’altra persona. Secondo le idee dell’amministrazione (così vengono definiti i brillanti padri di questo penitenziario), se ogni galeotto si limitasse a consumare la propria porzione, i più sfortunati avrebbero comunque la possibilità di consumare un pasto e di sopravvivere. Tuttavia, quando l’uomo viene messo di fronte alla morte, o peggio alla sopravvivenza, la collaborazione è l’ultima cosa a cui pensa. Ad un certo punto, una delle impiegate dell’amministrazione decide di scendere lei stessa nella prigione per provare l’esperienza. Per giorni si sgola nel tentativo di un semplice gesto di altruismo degli altri carcerati. Niente: solo le minacce di  Goreng, che si ritrova in cella con lei, riusciranno ad aver presa nella mente di chi sta sotto di loro. Quasi a dimostrare che il socialismo può essere solo imposto, ma non sgorgherà mai spontaneamente dai cuori degli uomini. Ciò che questo film, con una metafora paradossale, ci fa intendere è che l’uomo non è buono, non solo, anche se fossero tutti buoni, ne basterebbe uno solo cattivo per spezzare gli ingranaggi della macchina.

Alla fine della vicenda, è proprio con il bastone (letteralmente) che  Goreng arriva ad un passo da sfamare anche l’ultimo recluso. Un giorno, trovandosi al livello sei, un posto piuttosto invidiabile dove potrebbe sfamarsi del cibo appena uscito dalla cucina, decide di utilizzare il tavolo come un ascensore (che, come tale, si muove tra i livelli) e visitare i meno fortunati che si trovano più in basso e fare in modo che ognuno mangi solo la propria porzione. E, in questa discesa infernale, si imbatte nei più atroci delitti che un essere vivente possa compiere per sopravvivere: atti di cannibalismo, tortura, mutilamento, omicidio, fino al mero vampirismo. Lui stesso rischia di soccombere, ma imperterrito continua la sua missione, convinto che se una pietanza tornerà intatta alla cucina, chi comanda capirà allora che tutti hanno mangiato.

La morale, tuttavia, è semplice: gli uomini, che siano poveri o ricchi, hanno (e hanno sempre avuto) voglia di menar le mani. Lo vediamo nei libri di storia e questo film non fa altro che confermarlo. Per secoli si è cercato di capirne il motivo, ma l’unico forse veramente pregnante lo possiamo ricondurre a Freud: in ognuno di noi c’è un desiderio di piacere ed uno di dolore. È il cosiddetto principio di morte, che lo psicanalista aveva brillantemente teorizzato dopo aver assistito ai disastri della Prima guerra mondiale. L’opera si chiama Al di là del principio di piacere; se vi capita, leggetelo.

A cura di Alessandro Randi