Il Divo: l’Andreotti di Sorrentino tra il mito e la storia
Nel suo C’era una volta Andreotti, Massimo Franco racconta che Francesca Cima, produttrice de Il Divo, gli avesse chiesto di poterlo aggiungere nei ringraziamenti finali. Franco le chiese a quel punto di leggere almeno la sceneggiatura, ma a quella domanda la produttrice si fece evasiva e la cosa rimase incompiuta. Sempre stando alla biografia, in un’altra occasione Sorrentino invitò a cena il giornalista e, appena seduti, gli chiese: ‹‹Ma secondo te Andreotti è mafioso?››. Franco rimase impietrito. A essere onesti, non c’è un italiano che sia uno che non si sia mai posto la domanda.
A discapito delle apparenze, Il Divo non è una biografia. Non lo è perché molte risposte che prova a dare in realtà non le avremo mai. C’è sicuramente un certo approfondimento, perché diverse sentenze giudiziarie studiate da Sorrentino erano già passate in giudicato, ma non si deve dimenticare che il fenomeno del pentitismo, dopo la morte di Falcone e Borsellino, provocò diversi depistaggi e inquinamenti di prove. Il Divo però conferma tutte le fantasie più masochiste di noi italiani. Abbiamo sempre voluto che Andreotti fosse quel Grande Vecchio che comandava tutto, che fosse quel machiavellico massone (il sostantivo corrisponde a verità) che sottobanco, con il favore delle tenebre, tramava per motivi che ancora ci sfuggono. Uomo perfido, che conteneva il suo archivio nella gobba, ‹‹come una scatola nera››. Sorrentino ricrea questo personaggio e lo offre agli italiani, dicendo: ‹‹Sì, è tutto vero››. Così, ancor di più il mito si intreccia con la storia, fino a non potersi più separare. Le luci del film sono come oscurate, le stanze nelle quali Andreotti si muove, insonne, di notte è come se fossero il suo habitat, una casa costruita sulle penombre, sui non detti, sulle battute, tanto che la moglie sentirà ‹‹la necessità, ogni tanto, di ristabilire la verità››.
Andreotti è ingobbito dal peso degli anni e delle responsabilità, ma c’è una voce che lo tormenta più di tutto il resto: quella di Moro. È un ronzio infinito, che viene dall’oltretomba e lo accusa. Cossiga, interpretato da Pietro Biondi, lo dice chiaro e tondo: ‹‹Noi abbiamo lasciato uccidere Aldo Moro… e se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle è perché mentre lasciavamo uccidere Moro, io me ne rendevo conto››. Forse è stato così anche per il divo Giulio, perché Moro lo conosceva da quando erano ragazzini. Erano entrati nella Democrazia Cristiana insieme, erano stati l’uno al fianco dell’altro. E poi avvenne il sequestro. ‹‹Perché non presero me?›› si chiede Andreotti nel film. Oggi noi posteri lo sappiamo il motivo. Diversi brigatisti pentiti hanno risposto a questa domanda: le Brigate Rosse rapirono Moro per puro caso. Era il più semplice da fermare, anche perché il suo tragitto quotidiano era molto intuibile. Fu il caso a incastrare Moro e la sua scorta. Ma «il caso o la volontà di Dio?» Questa domanda retorica, perché chi la poneva aveva già una sua risposta, viene fatta da Scalfari nel momento più intenso del film. Il giornalista, a colloquio con Andreotti, inizia a rivolgergli domande molto scomode, che riguardano la maggior parte dei misteri italiani. La questione è sempre la stessa: «Insomma – come ha detto Montanelli – delle due, l’una: o lei è il più grande scaltro, criminale di questo paese, perché l’ha sempre fatta franca; oppure è il più grande perseguitato della storia d’Italia. Allora le chiedo: tutte queste coincidenze sono frutto del caso o della volontà di Dio?» Da buon democristiano, Andreotti risponde con una domanda anziché con una risposta.
In un’intervista di qualche anno fa, il regista napoletano, interrogato dall’incalzante Minoli, indicherà Il Divo come suo miglior film.«È quello che mi è riuscito meglio» dirà al giornalista, e aveva già vinto l’Oscar con La Grande Bellezza. Molto interessante è la scelta del Sorrentino sceneggiatore, che non ha voluto ripercorrere la vita di Andreotti, ma ha inquadrato l’ultima parte della sua vita politica: la decadenza. Sorrentino non dice nulla allo spettatore, non lo aiuta a comprendere storia e dialoghi, perché non ce n’è bisogno: la vita di Andreotti, le sue vicende giudiziarie, i suoi segreti, i suoi silenzi, sono oggetto della curiosità di tutti, e in primis dello stesso regista.
Quando uscì il film, Sorrentino aveva il dubbio che Andreotti avesse già a disposizione la sceneggiatura, seppur venisse custodita gelosamente. Il sospetto era che i tentacoli andreottiani fossero così viscidi da arrivare ovunque. ovviamente, Andreotti non ne sapeva niente. Si ritrovò in sala, a vedersi impersonato da Toni Servillo, e all’uscita commentò serafico e pungente: ‹‹ Ha vinto [a Cannes] il film su di me? Se uno fa politica pare che essere ignorato sia peggio che essere criticato. Dunque…››.
A cura di Alessandro Randi