Il figlio di Saul e la lezione di Primo Levi

Ne I sommersi e i salvati Primo Levi scrisse che la rete dei rapporti umani all’interno dei Lager non era semplice, né riconducibile ai blocchi delle vittime e dei persecutori: lo spazio tra i due infatti non era vuoto ma «costellato di figure turpi o patetiche». Erano i «prigionieri-funzionario» della celebre «zona grigia», tra i quali lo scrittore identificò un caso limite: i Sonderkommandos di Auschwitz, i quali si occupavano della gestione dei forni crematori e che, prima o poi, sarebbero stati eliminati affinché nessuno potesse raccontare gli orrori di cui era stato testimone. Ad Auschwitz si succedettero dodici squadre, l’ultima della quale, nell’ottobre del 1944, organizzò una ribellione e fece saltare in aria uno dei forni crematori del campo.

Il figlio di Saul racconta la storia di uno dei membri di questa squadra, una delle tante «monadi sigillate» del microcosmo del Lager. È Ausländer Saul, un prigioniero ungherese con il labbro inferiore livido e due occhi tristi e rigonfi di borse. L’uomo procede con fare quasi meccanico tra le orride faccende di cui si devono occupare i Sonderkommandos ed è ormai sordo al rumore martellante dei pugni che fa risuonare le porte metalliche delle camere a gas. La cinepresa lo segue da vicino: il suo volto in primo piano nasconde lo scenario sfocato ma raccapricciante dell’esito della macchina di sterminio nazista. L’unica pietà è infatti quella concessa dalle scelte di regia, che risparmiano la visione diretta di una tragedia ineffabile.

Il solo evento che sembra risvegliare Saul dalla sua inerzia è la visione di un bambino sopravvissuto a malapena al gas ma immediatamente ucciso da un medico, che ordina in seguito di eseguirne un’autopsia. Di fronte a quello che si rivelerà essere un evento epifanico, Saul si libera di quell’apatia impostagli dal sistema di cui è vittima e ritrova uno scopo: cercare un rabbino che possa recitare i riti funebri per seppellire degnamente colui che crede essere suo figlio. È ancora Primo Levi ad averci spiegato che tra i compiti del campo di sterminio, tramite un metodico rituale che perpetuava una «violenza inutile», vi era quello di annichilire l’umanità dei prigionieri. È però quel sentimento di pietas nei confronti dei propri cari, pratica che affonda le radici nei primordi della storia dell’uomo, a risvegliare qualcosa in Saul, la cui esistenza avrà da quel momento, come unico fine, offrire una sepoltura a uno dei tanti innocenti sterminati per la «sola colpa di essere nati».

In quella Babele del campo di sterminio, dove gli ordini perentori sbraitati in tedesco coprono le grida e i pianti dei prigionieri, quel bisogno di offrire pietà a un morto in un regno della morte sembra in parte redimere Saul da ciò che ha commesso per sopravvivere agli orrori del Lager. Davanti alla vicenda dei «corvi del crematorio» vale infatti la pena ricordare, anche nel caso di un film, la lezione magistrale di Primo Levi, che ci chiede di riflettere sulla loro storia con pietà e rigore ma di sospendere il nostro giudizio.

A cura di Mattia Rizzi