La città degli sfigati
Siamo tutti degli sfigati e questo lungometraggio romano ci tiene a ricordarcelo. Studenti che non fanno nulla se non crogiolarsi al sole, bere birre dissetanti e parlare di quanto non sappiano approcciare con le ragazze. L’atmosfera è quella paradossalmente del successivo Chiamami con il tuo nome di Luca Guadagnino (e uno dei protagonisti somiglia anche a Timothée Chalamet): estetica saturata che trasuda afa, provincia, campagna, noia. L’estate di quelli che rimangono a casa, che non possono permettersi una vacanza ad Ibiza o Formentera o, semplicemente, che rimandano sempre il giorno in cui prenotare. Ci si illude che si faranno cose, che ci si organizzerà, che ci si divertirà nei soliti posti con la solita gente (ma che d’estate diventano magicamente più attraenti) e poi si finisce a passare le serate a maledire il giorno in cui non si è deciso il da farsi. Finché non arriva un angelo (che in questo caso prende il nome di Ludo) e zittisce l’ennesimo «che palle regà» della giornata. Si gira un film! E i protagonisti sono proprio i sei amici sfigati che si ritrovano catapultati in un’avventura fuori programma (e anche fuori porta). Uno di loro si innamora pure (e tutti gli altri segretamente lo invidiano perché lui ce l’ha fatta e loro no), ma lei è francese e snob e non lo calcola (è tornato lo sfigato di prima, evviva). Il film però c’è, è pronto e sembra pure carino: una storia d’amore fra il nostro Chalamet e la bella francesina che, a differenza della realtà, finisce bene. Se non fosse che i rullini su cui hanno girato siano inutilizzabili e assieme alla possibilità di poter dire «non abbiamo fatto nulla quest’estate, ma almeno abbiamo fatto qualcosa», svanisce anche la possibilità dell’amico di Ludo di provarci con lei dato che era stato proprio lui a recuperare i rullini incriminati. Insomma, la parabola degli sfigati: ad un certo punto si accende una luce, ma è solo la spia della benzina. Grazie Checco Zalone, santo patrono di tutti gli sfigati.
Nove anni di lavorazione perché, a detta dei registi, governava la pigrizia. In realtà il film è scritto e diretto in maniera impeccabile: girato con la reflex (che dona quell’aria di indi(e)pendent movie) e poco improvvisato (nonostante la provenienza dalla scena della stand-up comedy italiana di alcuni degli attori/registi), è l’esatto opposto del prodotto che i protagonisti tentano di portare a termine nella finzione. Quello che ne viene fuori è un film vero, semplice, ma in cui chiunque ha la possibilità di riconoscersi. Il linguaggio è quello dei giovani (come direbbero i boomers): un po’ di «fra’» e «zi’» qua e là e bestemmie annesse. D’altronde passare l’estate ad annoiarsi nella rovente capitale non aiuta.
E poi c’è lei: Roma. La vera protagonista di tutto il film. Sembra essere un semplice fondale scenografico, eppure emergono dirompenti tutti quei luoghi che la rendono unica. Non quelli de La Grande Bellezza (derisa dagli sfigati in una scena del film), bensì quelli semplici che tutti i romani possono chiamare “casa”: il Bar San Calisto a Trastevere, il Bar dei Brutti a San Lorenzo, la spiaggia di Capocotta a Ostia. Tutti posti marci dove si incontrano artisti, fattoni, rapper di quartiere perché i drink costano poco e si può fare un po’ di casino. Poi ci sono anche i grandi monumenti della Roma più turistica, come Trinità dei Monti o il cosiddetto Colosseo quadrato nel quartiere Eur con il quale si chiude l’ultima scena del film, in un’atmosfera quasi surreale dove dominano i colori pastello dell’alba. Non la Roma del potere o del grande cinema, ma quella degli studenti che cercano uno svago temporaneo per sopperire alla monotonia delle loro vite. «Del resto, non credo che ci sia qualcuno, in un luogo grande e complesso come Roma, che possa avere un’interpretazione ultima e definitiva della città. Pensiamo a Fellini e Pasolini. I due artisti arrivano a Roma dall’Emilia Romagna in due periodi diversi, uno gira La dolce vita e l’altro Accattone. Pur essendo contemporanei, hanno due modi differenti di sentire la stessa città», dice Nicola Lagioia, autore del romanzo La città dei vivi, a proposito della città eterna. Insomma, una città sfaccettata e più complessa che mai: la città del Papa ma anche dell’ultimo degli sfigati.
A cura di Gloria Sanzogni