Questione di prospettiva
Psicofarmaci, terapia psichiatrica, ira incontrollata, cuore spezzato, sofferenza. Sono questi gli elementi, non propriamente positivi, che contraddistinguono Pat nelle prime sequenze del film. La confusione all’interno della mente di uno sconvolto Bradley Cooper è immediatamente avvertibile dalla colonna sonora aggressiva che scandisce movimenti di macchina veloci e spezzati. Lo stato d’animo di Tiffany, prematuramente vedova, è invece presentato dal non-colore con cui veste per tutta la prima parte del film: il nero. Una magistrale interpretazione di Jennifer Lawrence riesce a far capire inequivocabilmente come Tiffany sia delusa, amareggiata e arrabbiata per la perdita del marito. Il tema centrale esplicito è quindi la follia, in tutte le sue forme, e il modo in cui vengono presentati questi due personaggi ci aiuta ad entrare nelle loro menti, producendo un senso di straniamento di un’inaspettata piacevolezza.
Quando Pat torna a casa, dopo otto mesi passati in un ospedale psichiatrico per aver pestato a sangue un uomo, in tanti hanno paura di lui e della sua follia aggressiva. Nelle sequenze in cui è rappresentata la diffidenza del convenzionalmente non-folle, Russell riesce silenziosamente ad insinuare una domanda, un dubbio, forse scontato o forse no: aldilà della follia stessa, come ci poniamo noi di fronte ad essa? Perché a ben pensarci, non è così semplice dare una risposta. Le malattie mentali sono pesanti, tolgono tutto e, soprattutto, tutti. Non è facile “essere buoni” con la follia. Lui e Tiffany sono folli, diversi e incompresi, nessuno vuole avere a che fare con loro perché è effettivamente molto difficile. Sono evitati dai più e chi non li evita li studia, come fossero cavie. La loro non-ordinarietà e intesa sembra suggerirci che solo tra folli ci si capisce, che non c’è altra via per rientrare in società se non guarire e normalizzarsi. Ed è qui che l’interrogativo viene lasciato aperto, lasciandoci liberi di riflettere, di non prendere posizione probabilmente per l’enorme complessità dell’argomento. Una questione con cui però è necessario fare i conti, perché per troppo tempo è rimasta un tabù.
I due protagonisti, anche se a fasi alterne, hanno voglia di ripartire, di rinascere ed è l’amicizia il loro miglior psicofarmaco. Questa sarà scandita soprattutto dall’attività fisica: prima la corsa, poi il ballo, in un rapporto di odio amore continuo che rimarrà sempre nel tangibile, nel pratico e solo alla fine nelle (poche) belle parole e nei sentimenti. Un percorso di rinascita che trova la sua massima espressione nella prova finale di ballo, dove i due protagonisti non si esibiscono in un solo tipo di danza, ma nel tango, nel pop, lento e moderno, a simbolo proprio di ciò che è effettivamente stato il loro percorso insieme, tutto fuorché lineare. Contrariamente all’evidenza, Russell non vuole dirci di cercare sempre e comunque il lato positivo, ma piuttosto ci suggerisce di “dar retta ai segnali, cogliere il momento” qualunque esso sia. Fare della normalità follia e viceversa, filtrare i fatti attraverso i nostri occhi che possono essere folli, ma non bugiardi. Vivere, insomma, e poi vedere come va.
A cura di Agnese Graziani
Articolo veramente ben scritto e coinvolgente,che aiuta a vedere sotto uno sguardo più attento e profondo un grande film.
Leggendo l’approfondimento ho avuto modo di percepire delle “sottili sfumature” che non avevo colto, grazie. Però la cosa più entusiasmante sta nel riconoscere che queste “sfumature” posso essere presenti nella vita quotidiana soprattutto quanto sia fondamentale “dar retta ai segnali, cogliere il momento”.
Grazie Agnese Graziani
Grazie Filmeting, è stata una piacevole lettura.