Il protolatino de Il primo re: una lingua costruita in laboratorio
Imponenti architetture, toghe che strisciano sui pavimenti del foro e molli banchetti con aristocratici
avvinazzati: l’immagine che le serie televisive e i film ci trasmettono di Roma è quella di una realtà
imperiale, spesso a tinte fosche o decadenti, le cui vicende sono reinterpretate senza troppa aderenza
alle fonti storiche (chi non inorridisce di fronte alla drammatica morte di Marco Aurelio, soffocato
da Commodo nel Gladiatore?). Il regista de Il primo re, invece, ci trasporta nel tempo non definito
del mito, pervaso da un’aura magico-sacrale, veicolata da un linguaggio misterioso, dai suoni duri e
dal ritmo incalzante. Il film di Matteo Rovere racconta infatti la storia di Romolo (Alessio Lapice) e
Remo (Alessandro Borghi), la cui leggenda è connessa al rito di fondazione della città di Roma.
La vicenda è nota e affonda le radici nell’VIII secolo a.C. Le fonti sono molteplici e variegate. Il
film propone una propria versione ma Rovere ha dichiarato di aver collaborato con storici e
archeologi, realizzando un prodotto che, pur proponendo una narrazione rivisitata, si realizza entro una cornice storicamente plausibile (facendo comunque prudere il naso a qualche purista). Ma ciò
che è evidentemente il punto di forza de Il primo re è la scelta dei dialoghi in “protolatino”. La
citazione con cui si apre il film, «un Dio che può essere compreso non è un Dio» (Maugham), definisce le coordinate della pellicola, che si muove entro i confini di una religiosità ancestrale, ma
potrebbe anche essere riferita all’antica lingua dei primi abitanti del Lazio, che alle orecchie dei
fruitori moderni risulta incomprensibile e dunque pervasa da un senso di sacro e di misterioso.
Per ricostruire dialoghi efficaci il regista si è affidato alle competenze del glottologo Luca Alfieri, il
quale, come Tolkien prima di lui e tanti altri, ha elaborato una lingua semi-artificiale. Le prime due
ipotesi di lavoro prevedevano, rispettivamente, le scene in latino classico con la pronuncia
scientifica (quella che non si studia nei licei italiani, per intenderci) oppure un recupero delle forme
arcaiche, in una concentrazione maggiore rispetto a quanto attestato dalle fonti. Inequivocabile il
giudizio di Matteo Rovere: le scene sembravano «‘a messa da’a nonna» (pure «sbiasciata», nel
secondo dei casi).
Si opta allora per una strategia differente. Sulla scorta del volume di Bausani, Le lingue inventate
(1974), Alfieri procede con un atto di creatività e, prescindendo dal rigore glottologico e utilizzando
le conoscenze di linguistica, ricostruisce un suo “protolatino” secondo le necessità espressive
cinematografiche. Il risultato è una lingua filologicamente scorretta, che presenta tessere
linguistiche di epoche diverse ma usate in sincronia e che fa uso di forme inesistenti. Insomma, una
lingua che, probabilmente, avrebbe fatto rizzare i baffi a Saussure ma che è riuscita a trasmettere
l’effetto di straniamento voluto dal regista ed è stata apprezzata anche dalla critica.
A cura di Mattia Rizzi
Intervento del Prof. Luca Alfieri (In absentia: incontri linguistici):
https://www.facebook.com/inabsentiaincontrilinguistici/videos/1672083059610270