Il regno: la via media tra denuncia e invenzione
Dentro la vita di un influente vicesegretario regionale prossimo al salto verso la politica nazionale: questo il presupposto de Il regno, un viaggio all’interno del sistema partitico spagnolo attraverso un punto di vista privilegiato. Manuel López-Vidal ha tutto ciò che si potrebbe desiderare: una moglie e una figlia che gli vogliono bene, una carica importante e ben pagata, una solida e influente rete di amicizie. Alcune notizie circa il suo coinvolgimento in un giro di corruzione iniziano però a trapelare e i vertici del partito, in cerca di un capro espiatorio, danno il via a una corsa contro il tempo alla ricerca della verità.
Rodrigo Sorogoyen decide di aprire la propria opera in maniera iconica con un breve ma incisivo longtake che ha la duplice funzione di farci entrare, in medias res, nel vortice di eventi che attende il protagonista (significativo in tal senso l’utilizzo della macchina a mano) e di riportarci alla mente alcuni grandi incipit senza stacchi di montaggio, su tutti L’infernale Quinlan di Orson Welles. Sembrano però essere due i rimandi specifici di questa prima lunga inquadratura: l’entrata nel ristorante attraverso la porta di servizio, passando per le cucine, ricorda il Martin Scorsese di Quei bravi ragazzi, mentre il passaggio di agenda tra commensali intenti a ridere e scherzare rimanda in maniera abbastanza evidente all’incipit de Le Iene di Quentin Tarantino. In entrambi i casi abbiamo a che fare con una banda criminale ma quelli che ci troviamo davanti non sono malavitosi, bensì i vertici di un partito politico. Anche il nemico appare subito, in televisione, e non può che essere un paladino della giustizia, un uomo senza macchia e quindi apparentemente privo di punti deboli.
Antonio de la Torre è fenomenale nel presentarci con la sola mimica facciale l’essenza di López-Vidal: è da sempre il braccio, non la mente del sistema di corruzione che tiene assieme i membri del partito. Il regno, questo il nome dell’organizzazione, dopotutto non è altro che una goccia nell’oceano di cupe relazioni del sistema e non sorprende che per coprire i pesci più grandi vengano sacrificati quelli più piccoli. La sua vita entra in crisi proprio per la perdita di prestigio, non per le accuse rivolte, ed emerge così subito una domanda che resta nascosta, ignorata: qual è il confine tra pubblico e privato? Nella farsa dell’interrogatorio interno al partito non trova risposta la domanda sulla politica, mentre è evidentissima quella sulla vita.
Il turbinio caotico di ricerche, dialoghi, tradimenti, inseguimenti e scontri che tengono banco per i successivi novanta minuti altro non è che il tentativo fuori tempo massimo non di dimostrare la propria innocenza, quanto la colpevolezza dell’intera classe politica. Una corsa folle, resa incalzante da una regia e una colonna sonora equilibratissime, che mantiene la tensione sino alla resa dei conti, al punto di non ritorno. Dopo che l’uscita sul mercato del primo Iphone aveva aperto il film e i video amatoriali erano stati la nostra porta d’accesso alle vacanze dei membri del Regno, ecco che finiamo ad osservare il dietro le quinte di una diretta televisiva. La conduttrice è vestita in rosso, emblematica rappresentazione della voce del popolo, e l’intervista si trasforma ben presto in un attacco diretto, senza compromessi. La verità è lì davanti agli occhi degli interlocutori, documentata, eppure si torna indietro, alla domanda iniziale, e ci si chiede: come è stato possibile chiudere gli occhi? Come si è potuto lasciar correre per anni un sistema tanto esteso senza interrogarsi sulle conseguenze?
Il regno gioca con lo spettatore consegnandogli un finale aperto, anzi interrotto. La Spagna è un paese con un bassissimo tasso di corruzione rispetto alla media europea, mentre le vicende raccontate riportano alla mente scandali di altri paesi (su tutti quello italiano di Mani pulite). Il finale resta aperto perché la risposta non spetta a questo film ed è tutta qui la grande invenzione di Sorogoyen: la denuncia è solo abbozzata, allo spettatore la libertà di prendere posizione.
A cura di Andrea Valmori