Caccia al mostro che non esiste 

Un fulmine a ciel sereno, poi la tempesta. Lunga, straziante, imprevedibile. Talvolta si fa impetuosa, suggerendo il peggio, talvolta sembrerebbe quasi placarsi, mostrando qualche spiraglio di cielo. Solo che dopo questa tempesta, il sole non arriva. Il sospetto decide di lasciarti turbato. Ti sconvolge, smuove il tuo senso di giustizia, ti fa arrabbiare, soffrire, inveire. Poi ti consola, ma solo in apparenza.

Non c’è logica in quello che succede: la vita semplice di un maestro d’asilo perfettamente integrato nella sua comunità, la bambina del suo migliore amico che si “innamora” di lui e vive con odio l’ovvio rifiuto. Le parole di lei, che sovrappongono la rabbia alle frasi sentite dal fratello maggiore, e la vita di lui, che viene completamente stravolta da un’accusa di molestia sessuale. E poi la psicosi collettiva, che non vuole sentir ragioni, l’odio, l’emarginazione, la cattiveria, l’allontanamento di un innocente reso colpevole dai suoi stessi amici. Non c’è logica in quello che succede. O forse sì: è la logica di chi non è disposto a lasciare spazio al dubbio, è la logica della società che crede di avere la certezza in mano, della società che sceglie di stigmatizzare la vittima, della società che decide di buttare via i sentimenti e il rispetto in favore dell’odio cieco. E così a nulla valgono gli affetti di una vita e la reputazione avuta fino ad ora: basta un niente, un sospetto, per cancellare tutto.

I due grandi assenti nel film di Thomas Vinterberg sono il dubbio e la volontà di andare a fondo nelle cose. Dal professionista che interroga la bambina alle maestre, ai genitori, ai migliori amici, alla cittadina intera. Tutti credono all’incredibile, senza tener conto dell’assurdità dell’accusa e fermi nella propria convinzione: “I bambini non mentono mai”. E invece, anche i bambini hanno una psicologia, anche i bambini mentono, anche i bambini sbagliano: ma a questo nessuno pensa. Quello che era un sospetto lanciato da alcune parole ambigue di una bambina, diventa una certezza costruita e guidata dagli adulti. Da questo alla psicosi collettiva è un attimo: nessuno pensa che mal di testa e incubi possano essere facilmente riscontrabili nell’infanzia, né che possano essere ricondotti ad altro. È chiaro (secondo loro): sono indizi di abusi sessuali.

“Pervertito”, “mostro”, “malato”, dalla psicosi all’odio il passo è ancora più breve, e così iniziano le minacce, le botte, la cattiveria, talmente ingiusta da non risparmiare neanche il cane del protagonista Lucas (Mads Mikkelsen). La rabbia aumenta fotogramma dopo fotogramma, e si sposta man mano da Klara – la bambina che ha causato la tragedia – all’intera comunità, che non è disposta a credere al maestro neanche quando sono i bambini stessi a dire di aver mentito. La manipolazione del mondo dei grandi diventa sempre più evidente, tanto da convincere Klara che sia lei a non ricordare l’accaduto, senza pensare che forse, l’accaduto, non è mai esistito. Ma in questo mondo dei grandi, non c’è spazio per il dubbio. E forse non è un caso che gli unici ad ascoltare il cuore e i sentimenti siano proprio Marcus – il figlio adolescente di Lucas – e la stessa Klara.

Neanche la sentenza definitiva riuscirà a fare luce sulla vicenda: archiviato il caso solo perché i bambini descrivevano nei minimi dettagli uno scantinato inesistente (prova di quanto i racconti dei più piccoli siano facilmente manipolabili), nessuno arriverà a capire come sono realmente andate le cose, e che tutto ha avuto inizio dalla rabbia di una bambina dovuta a una cotta non corrisposta. E a niente vale l’atmosfera di riappacificazione tra l’emarginato e la comunità che si respira sul finale, in occasione di una battuta di caccia: a spazzarla via basta un colpo di fucile, indizio di un non detto invisibile ma presente, di una spaccatura che non si può ricucire, neanche dopo una sentenza della giustizia.

A cura di Margherita Ceci