Uno, nessuno e centomila

Per chi ama e stima Bob Dylan, Io non sono qui è un film imprescindibile: non solo perché racconta la sua storia, ma perché lo fa sperimentando in una chiave assolutamente sorprendente.

All’interno della pellicola i protagonisti sono sei ed ognuno di questi rappresenta un lato della personalità e della vita del cantautore. Il poeta (Arthur Rimbaud), il profeta (Jack Rollins/Padre John), il fuorilegge (Billy McCarthy), il falso (Woody Guthrie), il «martire del rock and roll» (Jude Quinn) e la “stella elettrica” (Robbie Clark). Ognuno di loro viene da contesti diversissimi, hanno storie  ed esperienze di vita agli antipodi, ideologie contrastanti. Todd Haynes riesce in un’operazione impossibile: radunare tutte le vite e le sfaccettature di Bob Dylan in un unico film, mettere in scena il caos, affrontare la vita del cantante di petto, senza coinvolgerlo mai direttamente, se non nella colonna sonora e nella sequenza finale. Ogni storia si intreccia poi all’altra senza un apparente filo logico: siamo sballotatti tra i decenni e le lotte sociali più diverse trasportati scena dopo scena in maneira travolgente. Anche i colori cambiano: alcune storie vengono fotografate in bianco e nero, altre a colori. Lo stile cambia. La storia di Jack Rollins è raccontata sotto forma di documentario, con le interviste a chi lo ha conosciuto; la storia di Arthur Rimbaud è un’intervista al poeta in persona, in cui parla di caos, di fatalismo e si trasforma in voce fuori campo sulle immagini di altre storie; poi si passa dal romantico sino a toccare il drammatico.

Un mosaico che per le più disparate storie e forme può lasciare interdetto lo spettatore e, non neghiamolo, ad alcuni questa sensazione rimarrà sino alla fine della pellicola. Ma il film parla pur sempre di Bob Dylan e il regista ha scelto di raccontarlo nell’unico modo in cui si può parlare di lui, per frammenti, fotogrammi da ricostruire mettendo assieme i pezzi. Giungendo alla fine del film viene spontaneo chiedersi: chi era dunque Bob Dylan? La risposta probabilmente la si trova in tutti e sei i personaggi, ognuno come un pezzo in un momento diverso della sua vita, a tratti anche incoerentemente, ma è l’incoerenza stessa una delle chiavi per comprendere la portata dell’operazione. Non è un caso quindi che sia la sua musica il collante delle singole tessere, la sua musica come l’unica cosa vera, universale che sappiamo e ci rimane di lui. Perciò, anche se potrebbe sembrare scontato e certamente doveroso, questa scelte assume una forte importanza simbolica: le sue canzoni sono quelle e, al di là di tutto, quelle sono la sua eredità e il suo testamento, come magistralmente sintetizzato dalla performance dal vivo della sequenza finale.

Dunque Todd Haynes ci accompagna alla scoperta del caos che ha sempre caratterizzato la vita del cantante di Duluth, con la sua musica lungo il percorso, dove le sue parole e il suo stile non restituiscono un’unità, bensì uno, nessuno e centomila.

A cura di Agnese Graziani