JFK: incontrare Oliver Stone
Quando incontrai Oliver Stone, ero appena atterrato all’aeroporto JFK di New York. Stavo aspettando davanti alla pedana l’arrivo del mio bagaglio, che puntualmente era l’ultimo, quando, girandomi, vidi questo uomo alto e con i capelli mori, una grigia sciarpa attorno al collo e un cappotto che sembrava molto pesante. Lo riconobbi subito, era chiaramente quel pazzo di Oliver Stone. Uno dei miei registi preferiti, il suo JFK – Un caso ancora aperto mi aveva letteralmente terrorizzato. Mi avvicinai studiandolo con lo sguardo, lui si girò, mi squadrò interrogativo, poi alterato e infine mi mandò a quel paese.
Il motivo del mio immobilismo era semplice: non sapevo spiccicare una parola di inglese. Con questo, intendo dire che a scuola lo sapevo, l’inglese, ma quando dovevo parlarlo nella vita, guarda caso diventavo subito analfabeta. Tornai alla pedana, consapevole di due cose. La prima: che sicuramente il mio bagaglio non s’era fatto vedere. La seconda: che avevo perso un’occasione per scambiare quattro chiacchiere con uno dei più importanti registi americani. Sconsolato, mi misi a sedere aspettando. Dopo mezz’ora, ancora nessuna notizia della mia valigia. Mi irritai ancora di più. Mi avvicinai alla prima impiegata nei paraggi, le descrissi minuziosamente i tratti della mia ventiquattrore e lei mi rispose che aveva visto uno dei passeggeri andarsene dopo averla presa. A quel punto, convinto che si trattasse di un vero e proprio furto, mi infuriai e cacciai una di quelle imprecazioni che ci fanno riconoscere, a noi italiani, in tutto il mondo. Secondo la malcapitata funzionaria, il signore che l’aveva fatta sua era un uomo alto, un po’ burbero e molto di fretta. Aggiunse che le sembrava di averlo già visto, ma non si ricordava dove, forse in televisione.
Mi precipitai fuori correndo e notai Oliver Stone all’uscita dell’aeroporto con la mia valigia in mano. Stava, anche lui, imprecando contro il cellulare perché evidentemente si erano dimenticati di venirlo a prendere. Questa volta mi avvicinai con più cautela, lo guardai, lui sbuffò e gli feci notare che quello che aveva in mano era il mio bagaglio. Dopo essersi insospettito, gli mostrai la targhetta che indicava chiaramente il mio nome e il mio indirizzo. A quel punto, dubbioso, mi chiese di vedere la mia carta d’identità, perché non si fidava. Per non sapere né leggere né scrivere, io gli mostrai patente, passaporto, documento e anche la tessera sanitaria. A quel punto, non gli restò che credermi.
Lasciato senza bagaglio, mi sentii in colpa per averlo deluso. A quel punto mi venne in mente un argomento su cui conversare: ‹‹Cosa ne pensa del fatto che questo aeroporto sia dedicato proprio a JFK?››. Lui mi guardò infastidito, non saprei dire se per la domanda o per la mia presenza: ‹‹Oltre il danno, la beffa. Prima ci fanno credere che ad ucciderlo sia stato Lee Oswald, quando invece sono stati loro, poi intitolano l’aeroporto più importante del paese a lui, per pulirsi la coscienza!››. Io, che avevo sempre immaginato, o forse sperato, che non ci credesse fino in fondo, rimasi a bocca aperta. Stone, come se mi avesse letto nei pensieri, aggiunse: ‹‹Se io mi sono sbagliato così tanto, perché, una volta uscito il mio film nelle sale, il governo americano ha dovuto riprendere in mano tutti i fascicoli, ristudiarli e rielaborare una nuova decisione? Perché fu approvato il JFK Act, che viene aggiornato ogni anno con nuove prove e documenti? Perché tutti i più grandi politici americani mi hanno aggredito mentre ero nella fase di produzione del film? Kennedy voleva farla finita con la guerra in Vietnam, perché era un conflitto senza un senso, e per questo lo hanno fatto fuori! E io lo so, se lo ricordi bene. In Vietnam ci sono stato!››. Disperato a sentire quelle parole, lo incalzai, nel mio maccheronico inglese, con un ultimo tentativo: ‹‹Mi scusi, ma non crederà mica che per questo motivo CIA, FBI ed esercito degli Stati Uniti si siano accordati per fare fuori il loro comandante in capo!››. Stone, serafico, mi rispose: ‹‹Si ricordi che cosa postulava Gore Vidal. Negli USA, a comandare è l’industria delle armi. Per poter salvare l’economia, noi abbiamo bisogno ciclicamente di fare delle guerre. Come per l’11 settembre››. ‹‹Eh no! Non può mettere in mezzo anche l’11 settembre!›› risposi io, quasi piangendo. Il regista, entrando in macchina, mi sorrise e mi disse: ‹‹Tenga stretto quel bagaglio, giovanotto! E si studi la storia››.
Mi risvegliai, sudato fradicio. Poi capii di essere nel mio letto e mi tranquillizzai. Chissà perché quel film mi ha sempre fatto uno strano effetto, come se Stone, ad ogni visione, lo incontrassi davvero.
A cura di Alessandro Randi