Kramer contro Kramer: fino a che punto spingersi per ottenere una prestazione attoriale realistica?
Se vuole regalare una performance indimenticabile, l’attore deve essere disposto a pagarne il giusto prezzo: questa è l’idea alla base del metodo di recitazione secondo Dustin Hoffman. Ciò che rimane davvero sorprende in Kramer contro Kramer infatti, ancor più del ritmo narrativo ineccepibile e dei dialoghi così verosimili, sono le interpretazioni degli attori.
In quegli anni Hoffman recitò nel Tootsie di Pollack e la Streep nel Manhattan di Allen: risulta quindi chiaro che quando uscì il film, nel ’79, lavorativamente parlando i due fossero in stato grazia. Sfatiamo un mito però: nessuna prestazione di questo calibro può essere frutto del solo talento. Tanto per cominciare, quello non era il momento giusto solo perché costituiva uno degli apici delle loro carriere, ma anche per via di una certa incidenza tra i personaggi e ciò che al tempo li stava segnando come persone nella loro vita privata.
Meryl Streep, che ottenne Oscar e Golden Globe come migliore attrice non protagonista, poté trasmettere senza finzione il dolore profondo proprio del suo personaggio, perché pochi mesi prima delle riprese aveva perso il suo compagno John Cazale, anch’egli attore. Inoltre, quando gli venne offerto il ruolo di protagonista, in un primo momento Hoffman (anche lui vincitore dei due prestigiosi premi) rifiutò perché stava vivendo un periodo difficile dovuto al divorzio in atto con la sua prima moglie Anne Byrne. Un’affinità che permise all’attore di entrare con più facilità nel personaggio di Ted Kramer, di cui contribuì a sceneggiare le battute, condizione minima pattuita col regista Benton per accogliere la richiesta di accettare la parte.
Ma l’apporto decisivo venne da un modus operandi che aveva perfezionato negli anni, Dustin Hoffman lavora infatti tramite le tecniche recitative del method acting, che sfruttano il principio della memoria affettiva. Questo metodo, vicino parente dello Stanislavskij, esaspera l’idea che per mettere in scena un’emozione bisogni innanzitutto provarla, e dal momento che capita di frequente che sul set risulti complicato richiamare alla mente il ricordo giusto e riviverlo, si propone anche di eliminare ogni ostacolo che impedisce all’attore di accedere alla parte più profonda di sé.
Ecco, possiamo dire che su quest’ultima parte Hoffman si riservò il diritto di una libera interpretazione. Con Streep oltrepassò il limite svariate volte per assicurarsi che il loro rapporto fosse pessimo anche al di fuori delle riprese: si impegnò a risultare pessimo palpandole un seno al loro primo incontro, tirandole uno schiaffo, parlandole del suo defunto fidanzato prima di una scena e rompendo un bicchiere, di cui la sceneggiatura non faceva cenno, contro una parete per sfruttare la sua reazione davanti alla videocamera.
Anche con Justin Henry, che interpretava suo figlio Billy, instaurò un rapporto esclusivo secondo il quale il piccolo veniva tenuto all’oscuro di quello che sarebbe successo nelle scene successive, e Hoffman ogni mattina lo prendeva da parte e lo informava, nel tentativo riuscito di far trasparire questa intimità sullo schermo. Quando il bambino doveva piangere però, Hoffman ricorreva al method acting minacciandolo nei modi più disparati, per esempio dicendogli che molto presto non avrebbe più visto nessuno della troupe.
Il dubbio riguardo all’eticità del method acting, ma soprattutto del modo in cui Hoffman lo mise in pratica, rimane, ma d’altra parte si parla dell’eterna domanda riguardante il rapporto tra artista e opera d’arte. In ogni caso è poco ma sicuro che seppur opinabili questi metodi abbiano portato a un risultato eccellente.
A cura di Emma Cortesi