La casa di Jack: ovvero l’ennesima prova di stomaco di Lars von Trier

La casa di Jack si può guardare solo in un modo: cogliendone tutti i riferimenti artistici, letterari e filosofici. Questa polarizzazione è stata perfettamente rappresentata dalla reazione del pubblico di Cannes quando il film venne presentato: metà si alzò disgustato dopo un’ora; i rimanenti gli riservarono una standing ovation. Tuttavia, parlare de La casa di Jack senza sapere chi sia il suo regista sarebbe come leggere la Commedia senza sapere che questa plurinominata Beatrice era, nella finzione letteraria, l’amata di Dante.

Lars von Trier è un regista danese noto ai più per le sue contraddizioni, le sue fobie, le sue dichiarazioni, le sue dipendenze e le sue perversioni. Nato in una famiglia di nudisti, comunisti e atei, il piccolo Trier cresce senza essere educato: i suoi genitori, infatti, erano fermamente convinti del diritto del bambino all’autodeterminazione. Perciò, Lars si ritrovò immediatamente a dover badare a sé stesso, il che gli ha causato non poche nevrosi. Parte dell’indifferenza del padre era, in realtà, dovuta dal fatto che quel pargolo non era un suo frutto. Agonizzante sul letto di morte, infatti, la madre rivelò al futuro regista di essere il figlio di tal Fritz Michael Hartmann, noto compositore danese. Alla richiesta di spiegazioni, la donna si giustificò, esalando l’ultimo respiro e dicendo:  ‹‹Volevo dei geni artistici per mio figlio››. Se ci fermassimo qui, forse l’intera opera di von Trier troverebbe già una spiegazione.

Crescendo, Lars iniziò a bere e drogarsi pesantemente: queste dipendenze, in realtà, lo accompagnarono fino a pochi anni fa, quando, una volta disintossicatosi, elogiò malinconicamente le proprie vecchie abitudini: ‹‹Per scrivere Dogville, sotto l’effetto di alcol e droga, ho impiegato 12 giorni. Per la sceneggiatura di Nymphomaniac, scritta da sobrio, ci ho messo 18 mesi››.

Famoso per le sue stranezze, come il non viaggiare mai in aereo, il salire solo su auto e treni di una determinata marca e, a ogni festival, lo spostarsi per l’Europa in camper per raggiungere Cannes, von Trier soffre anche di depressione e ipocondria: non c’è un collaboratore che non l’abbia sentito lamentarsi del cancro e del tumore che in realtà non ha.

Nel 2011, presentando il suo Melancholia a Cannes, il regista si lanciò in una serie di dichiarazioni senza senso che gettarono l’opinione pubblica e i suoi attori (che si guardarono sbigottiti chiedendosi: ‹‹Ma con chi c***o abbiamo lavorato?››) nel panico: ‹‹Cosa posso dire? Capisco Hitler. Ha fatto molte cose sbagliate, assolutamente, ma posso immaginarmelo seduto nel suo bunker, alla fine… mi immedesimo, sì, un po’››. Per poi definire lo stato di Israele “una rottura di palle” ed esternando tutta la sua ammirazione per Albert Speer, l’architetto di Hitler: ‹‹No, io voglio solo parlare dell’arte. Albert Speer mi piaceva. Era forse uno dei migliori figli di Dio… Ha avuto del talento che poteva essere utilizzato… Ok, sono nazista››. Cacciato in fretta e furia dal Festival, fu radiato per sette anni da Cannes. Il ritorno, datato 2018, fu con La Casa di Jack.

Il film si apre con un dialogo su uno sfondo nero. Due voci discutono senza che lo spettatore sappia di chi siano. Poi, una delle due inizia a narrare cinque dei suoi incidenti, che noi comuni mortali chiameremmo omicidi. A questo punto, tutta l’oscenità tipica di von Trier entra in gioco: gli assassinii e le torture sono di una crudeltà che solo i dialoghi che le spiegano possono renderli digeribili. Si passa dal volto di Uma Thurman sfigurato da un cric, ad un corpo ridotto a brandelli perché trascinato con un furgone. Dall’uccisione di due bambini e l’esposizione dei piccoli cadaveri alla madre, al taglio dei seni di una ragazza. Tutte scene che von Trier, per la biografia di cui sopra, non ci risparmia. A questo punto, lo spettatore si trova con le spalle al muro: o lascia la sala disgustato e furibondo, o manda giù il boccone e prosegue. Nel frattempo, le due voci iniziali accompagnano tutto il film, commentando gli avvenimenti. In particolare, l’assassino ci vuole convincere che i suoi non sono omicidi, bensì opere d’arte, con continui riferimenti architettonici, pittorici, scultorei e filosofici.

Arrivati al culmine dell’orrore, von Trier ci mostra finalmente i due interlocutori: Jack (Matt Dillon), cioè l’assassino, e Virgilio (Bruno Ganz). Sì, quel Virgilio. A parte la perversione artistica di impersonificare il poeta latino con un attore famoso, tra le altre cose, per aver interpretato Hitler, da questo momento Virgilio conduce Jack all’Inferno, riproponendo il viaggio dantesco. Dal punto di vista scenografico, inizia una delle parti più spettacolari degli ultimi anni: i due vengono inseriti nel famoso quadro di Delacroix, La Barca di Dante, attraversano i cerchi dell’Inferno e Bruno Ganz fornisce (come se ce ne fosse bisogno) un’ulteriore prova delle sue capacità attoriali (tra l’altro, l’attore morirà subito dopo il termine delle riprese). Il viaggio negli inferi conduce i protagonisti ad un ponte interrotto. Al di là, spiega Virgilio, c’è l’uscita dell’Inferno: nessuno è mai riuscito a raggiungerla. Se Jack ci riesca o meno, lo faremo scoprire al lettore, se riuscirà a superare l’Inferno per lo spettatore: cioè l’ora e mezza precedente.

A cura di Alessandro Randi