La città incantata: «La sparizione di Chihiro»

Quando cala la notte le strade delle terme di Aburaya si popolano di ombre senza volto e di creature del folklore giapponese. Le luci delle lanterne rosse delle locande si accendono e il cuore a vapore del complesso dei bagni pubblici torna a pompare aria calda nelle arterie dello stabilimento. Di giorno invece questo luogo è deserto e assomiglia a un parco dei divertimenti abbandonato: così almeno lo avevano inteso la madre e il padre di Chihiro quando, nonostante i timori della figlia, vi si erano avventurati incautamente. Trascinati dal profumo di piatti fumanti, i due avevano consumato le pietanze destinate agli spiriti e, proprio come i compagni di Odisseo, si erano trasformati in porci grufolanti.

Chihiro spera di svegliarsi presto dall’incubo in cui sembra essere rimasta da sola. Ad accompagnarla in questo viaggio di formazione che la attende ci sarà però il giovane Haku. Su suo consiglio la ragazza si reca dalla proprietaria delle terme, perché l’unico modo per sopravvivere nel mondo degli spiriti è trovarsi un lavoro. A capo di questa macchina capitalista c’è infatti la strega Yubaba, vecchia dalla testa sproporzionata e dal lungo naso adunco, da cui Chihiro ottiene un contratto: come in un rito di passaggio, però, la ragazza va incontro a una “morte” simbolica, spogliandosi del suo vecchio nome e prendendo quello nuovo di «Sen». Del resto, lungo tutto la pellicola, sono distribuiti elementi topici che suggeriscono il cambiamento cui andrà incontro la protagonista: il tunnel che attraversa la famiglia prima della metamorfosi dei genitori, il fiume che separa il mondo dei vivi da quello degli spiriti, il ponte di accesso allo stabilimento termale e una lunga ferrovia percorsa da un treno di sola andata.

Così la non più bambina inizia un percorso di maturazione che si snoda tra la fatica del lavoro, come la pulizia delle vasche termali, e le tante azioni cortesi nei confronti dei «gentili ospiti», tra cui quel nume fluviale creduto un «dio putrido» poiché inquinato dagli uomini (ritorna così anche la materia ecologica, da sempre cara al regista). Ma il viaggio intrapreso dalla protagonista porta a una crescita condivisa anche con Haku: se infatti in virtù del suo aiuto Chihiro potrà riabbracciare i genitori e tornare nel mondo dei vivi, sarà invece grazie alla ragazza che Haku, anch’egli divinità tutelare di un fiume, potrà ritrovare il nome che gli era stato sottratto da Yubaba e riconquistare così la propria identità.

Per noi spettatori occidentali la pellicola ha un fascino irresistibile: l’intensità onirica e la policromia dell’ambientazione, l’ottima colonna sonora del fedele Hisaishi e il raffinato gusto estetico di Miyazaki sono difficili da tradurre in parole. Così come è difficile spiegare a un fruitore non giapponese quello che è successo alla giovane Chihiro, «sparita» – come si legge nel titolo originale – poiché rapita dai kami della religione shintoista. Eppure il prodotto del regista dello Studio Ghibli, che vinse il premio Oscar come miglior film di animazione nel 2003, è ancora in grado emozionare tutti, confermandosi un capolavoro intimo e sofisticato.

A cura di Mattia Rizzi