The Biggest Little Farm: storia di un sogno
John e Molly Chester coltivano pomodori sul terrazzino della loro casa a Santa Monica. Lui è un cameraman che gira il mondo per realizzare documentari sugli animali; lei una chef con un blog di cucina. Il loro sogno è quello di fondare una fattoria che sia completamente in armonia con la natura, e di certo qualche piantina in vaso non può soddisfare un desiderio così ambizioso. L’occasione giusta si presenta quando i due sono costretti a trasferirsi perché il loro cane Todd, che hanno appena accolto in casa, disturba l’intero vicinato con guaiti senza fine.
Mossi dalla giusta dose di incoscienza e grazie al contributo non meglio definito di alcuni investitori, John e Molly possono finalmente dedicarsi al loro progetto. Sotto la guida di Alan York, esperto di agricoltura tradizionale, i due coniugi vogliono dar vita a una realtà che si svincoli dalle consuete monocolture e il cui obiettivo principale sia raggiungere il massimo livello di biodiversità, restituendo linfa a più di duecento ettari di terreno deserto. Perché ciò accada, bisogna piantare quasi un centinaio di diversi alberi da frutto e allevare decine e decine di volatili, di ovini e di suini. Se poi si riusciranno a bilanciare le necessità della fattoria con quelle della fauna selvatica, anche gli animali che un tempo popolavano quelle zone sarebbero potuti ritornare.
Una primavera dopo l’altra, la fattoria di John e Molly sembra trasformarsi in un novello Eden. L’illusione di un paradiso restaurato svanisce però quando si scontra con la realtà. E anche le stesse intenzioni che avevano animato il progetto, una volta disilluse, non bastano più. Come le piaghe d’Egitto, una serie di calamità funesta la piccola realtà agricola: l’attacco dei coyote che fanno strage dei volatili; l’invasione delle lumache che banchettano con le foglie degli agrumi; l’infestazione di roditori che divorano le radici degli alberi. A ciò si sommano la morte di Alan, portato via da un cancro aggressivo, e la siccità che arde la California.
John rinuncia all’idea che la sua fattoria dovesse auto-regolarsi quando spara al coyote che stermina le sue galline: con l’animale muore anche una parte di quelle convinzioni sul potere di un idealismo senza compromessi. Però è ancora valido l’insegnamento di Alan: ogni flagello può essere affrontato con una combinazione di osservazione e di creatività. Se i cani vengono addestrati per difendere non più solo gli ovini ma anche i volatili, per esempio, i coyote inizieranno a cacciare i roditori, di cui a loro volta si ciberanno anche i reintrodotti rapaci.
Apricot Lane farms negli anni è diventata una realtà che attira turisti da ogni parte del mondo, coltiva oltre duecento varietà di vegetali e alleva ogni tipo di animale da cortile. John e Molly sono stati in grado di creare un intreccio vitale di complessità e di varietà, che ha avuto bisogno di tempo per assestarsi, ma che ora è il pilastro fondamentale su cui si regge la loro attività.
Girato in otto anni, il documentario di Chester ha il pregio di raccontare una storia vera che commuove e coinvolge con i suoi chiaroscuri. Nonostante i toni edificanti e ottimistici, infatti, il film non scade quasi mai in un elogio bucolico acritico, mostrandoci anche le difficoltà di un’impresa che ha i tratti dell’utopia. La lezione più importante che possiamo cogliere è però quella di non trincerarsi dietro a idealismi senza compromessi. Non si può infatti vivere in piena armonia con la natura, ma bisogna collaborarci con un buon livello di «disarmonia sostenibile», così come hanno imparato, a loro spese, anche John e Molly.
A cura di Mattia Rizzi