La vera scommessa è mettere in discussione ciò che tutti danno per certo
Dimenticate la finanza spumeggiante di Martin Scorsese in The Wolf of Wall Street, il realismo di
Adam McKay lascia spazio a una visione concreta e precisa dell’atmosfera austera e noiosa che
popola i grattacieli di New York. Il sistema bancario di Wall Street viene presentato senza scrupoli,
lontano dall’ideale utopistico a cui Hollywood ci ha abituato negli anni. La grande scommessa
restituisce con verità e cinismo una panoramica sulla routine ordinaria, caotica e arida del sistema
bancario americano.
Il film intreccia agilmente l’evolversi contemporaneo di due vicende, rispettando l’ordine
cronologico degli eventi e senza appesantirli del documentarismo storico, al contrario la storia
procede sempre con ritmo frizzante. Da un lato conosciamo Michael Burry, analista finanziario
titolare di Scion Capitol, fondo di investimento specializzato nella vendita alla scoperta di bolle
speculative. Dall’altro contemporaneamente, Charlie Geller e Jamie Shipley, giovani investitori
affamati di opportunità, che, una volta scoperta la strategia di investimento, decidono di
abbracciarla con convinzione. Ma non vi preoccupate: se la terminologia tecnica vi dovesse
spaventare, in quanto poco avvincente e volutamente confusionaria, sarete felici di sapere che ad
accompagnare la narrazione ci sarà, tra gli altri, Margot Robbie che, sorseggiando champagne in
una vasca da bagno, commenta fuori campo i tecnicismi più aggrovigliati.
La trasposizione cinematografica si ispira con fedeltà agli eventi reali, raccontando l’intuizione
premonitrice di Michael Burry nello scommettere sul fallimento del sistema immobiliare americano,
svelando una pagina nascosta della finanza statunitense. Se l’antologia cinematografica
Hollywoodiana ci ha sempre presentato Wall Street come un lussuoso parco divertimenti in cui la
fama e il successo sono una naturale conseguenza, La grande scommessa proietta sullo schermo
un’analisi critica e umana delle persone, ancor prima degli eventi, scoprendone debolezze e vizi.
Come in ogni scommessa ci si divide fra vinti e vincitori, se in questo caso Burry ed il suo fondo
possono dirsi vincitori, sono i risparmiatori americani a dover scontare la pena di un sistema
economico e sociale fallimentare. Non è quindi un caso che il più grande tormento di Michael Burry
rifletta proprio su questo punto: “Ho la sensazione che tra qualche anno la gente dirà quello che
dice sempre quando l’economia crolla. Daranno la colpa agli immigrati e alla povera gente”. L’etica
dell’investimento diventa così la chiave di lettura del film che intende umanizzare la logica del
profitto, accusando, seppur indirettamente, l’intero establishment bancario.
Nonostante il cast stellare e le cinque nomination agli Oscar, La grande scommessa sembra
continuare ad essere un film rivolto a una nicchia di appassionati ed interessati, colpevole
probabilmente di tecnicismi indigesti al pubblico generalista. Un film che riesce comunque nel suo
intento critico di raccontare un altro punto di vista, umano e sensibile, su un sistema economico
arido e senza scrupoli, dove “fare i soldi non è come credevo che fosse, questo business uccide
quella parte di vita che è essenziale, la parte che non ha niente a che vedere con gli affari”.
A cura di Alessandro Benedetti