La morte e la fanciulla: un passato sepolto e dissotterrato

In un paese imprecisato dell’America Latina, dove la dittatura è caduta da quindici anni, Paulina Escobar (Sigourney Weaver) riconosce nel Dottor Miranda (Ben Kingsley) l’aguzzino che la torturò brutalmente in passato. Con l’aiuto del marito (Stuart Wilson), la donna decide di recluderlo in casa costringendolo a confessare le sue colpe. Roman Polanski trae la sua opera dall’omonima pièce di Ariel Dorfman riuscendo nell’intento di realizzare un film claustrofobico, ambientato quasi interamente nella casa dei coniugi, in cui la tensione emotiva è sostenuta dall’oscura psicologia dei personaggi.

Ancora una volta, nel cinema del regista polacco, l’ambiente domestico è teatro di quel perturbante freudiano in cui gli eventi traumatici della nostra vita avvengono proprio all’interno dei luoghi apparentemente sicuri e confortanti. Paulina è mossa da un desiderio di solitudine e isolamento, un sentimento suggestionato dall’immenso spazio deserto attorno alla residenza, dove si vede in lontananza soltanto un faro che lampeggia. Vive in uno stato di perpetuo terrore causato da un passato pieno di tormento, apparentemente impossibile da farsi scivolare addosso. Quando il marito Gerardo viene riportato a casa da un passante a causa di un problema con la macchina in panne, Paulina comincia a sospettare dell’uomo, giungendo all’amara conclusione, dato che, dopo aver trovato papabili indizi su quest’ultimo (tra cui una cassetta de La morte e la fanciulla di Schubert), esso sembrerebbe proprio coincidere con il vessatore capitatogli durante la prigionia; ed ecco che si presenta la perfetta occasione per un ribaltamento dei ruoli, dove le vittime diventano carnefici e la linea che divide giustizia e vendetta diventa un confine labile.

Polanski sembra volerci mostrare l’impossibilità dell’essere umano di distaccarsi dalle sue ombre, un uomo costretto a convivere con il male e che consapevolmente infligge dolore fisico e psicologico. Un contenuto alimentato dalla splendida fotografia di Tonino Delli Colli: la flebile e ondulante luce calda, propagata dalle candele, riflette immediatamente l’ombra sagomata dei corpi dei personaggi, simbolo della dualità umana, di quanto siamo abili a fingere e a ingannare gli altri, eternamente in bilico tra il bene e il male.

La morte e la fanciulla non è un’opera che vuole soltanto mostrare gli orrori delle conseguenze psicologiche inflitte dal potere tirannico, bensì una vera e propria parabola sulle dinamiche di coppia, in quanto il terzo incomodo funge da pretesto per indurre i coniugi a confrontarsi, a parlare e soprattutto ad ascoltarsi. Il marito pone i doveri di carriera al di sopra della coppia, causando dei punti di rottura con la moglie; oltretutto, Paulina e Gerardo hanno tentato evidentemente di seppellire emozioni e sentimenti, nascondono delle verità: l’assenza di comunicazione provoca fratture profonde nell’interiorità dei personaggi. La sceneggiatura di Rafael Yglesias e Ariel Dorfman è frutto di un risultato impeccabile, proprio per una struttura e una stesura di dialoghi dinamici e adrenalinici, interpretati da un cast in stato di grazia, con una menzione particolare per l’inarrestabile Ben Kingsley.

A cura di Matteo Malaisi