La persona peggiore del mondo: crescere da adulti

L’avanzare della tecnologia ha senz’altro portato dei cambiamenti positivi nelle nostre vite: abbiamo la possibilità di connetterci con migliaia di persone da ogni parte del mondo, abbiamo accesso immediato ad ogni tipo di informazione e possiamo tenerci sempre aggiornati su ciò che accade intorno a noi. Ma negli ultimi decenni questa sovrabboddanza caleidoscopica di stimoli ha avuto delle spiacevoli ripercussioni sulla nostra capacità di concentrazione e, soprattutto, sulla nostra psiche, riempiendo la nostra mente di dubbi e inquietudini e trasformandola in un frenetico ingranaggio che non cessa mai di ruotare. La persona peggiore del mondo è la storia di una persona in cui probabilmente si può riconoscere gran parte della generazione dei Millennials (e, per molti versi, anche di quella successiva), alla costante ricerca di sé stessa e del proprio posto nel mondo; a tal proposito è particolarmente significativo il contrasto fornito da uno dei partner della protagonista, molto più grande di lei, che si è già affermato in ambito lavorativo ed è impaziente di diventare padre.

Descritto dal regista Joachim Trier come «un coming-of-age per adulti che non sentono ancora di essere cresciuti», il film è suddiviso in dodici capitoli racchiusi tra un prologo e un epilogo: è in effetti un libro illustrato che racconta il viaggio interiore di Julie (la quale, non a caso, finirà per lavorare in una libreria), una giovane donna che fatica a trovare la propria strada e un amore che la faccia sentire pienamente soddisfatta. Passa di capitolo in capitolo con una scorrevolezza quasi disarmante, senza tornare indietro per rileggere qualche riga che forse meritava un po’ più di attenzione; a primo impatto sembra affrontare i cambiamenti con serenità e disinvoltura, dalla facoltà di Medicina a quella di Psicologia, dal corso di fotografia alla redazione occasionale di articoli attraverso cui esprime le sue idee femministe, l’unica cosa su cui non la vediamo mai vacillare. Ma i diversi momenti morti in cui si perde ad osservare la città o in cui la macchina da presa si sofferma sul suo volto riflettono, in realtà, un profondo senso di angoscia e smarrimento. Lei stessa dirà di sentirsi una mera spettatrice della sua vita, tant’è vero che spesso i suoi pensieri e le sue azioni vengono narrati da una voce onnisciente fuori campo; a peggiorare le cose c’è il compimento dei trent’anni, una soglia che sembra implicare il dovere di metter su famiglia, come hanno fatto tutte le componenti del suo albero genealogico a quell’età. Ma solo davanti alla morte ci si rende conto di avere ancora tutta la vita a disposizione: è infatti con la malattia di Aksel che Julie sembra finalmente raggiungere la terraferma dopo anni trascorsi alla deriva.

Anche se alcuni la giudicherebbero alquanto impulsiva, è difficile non ammirare l’intraprendenza di Julie e il suo coraggio di non lasciarsi condizionare dalle aspettative della società, di mollare tutto e inseguire le sue aspirazioni indipendentemente dalla loro mutevolezza. Perché è questo che dovrebbe essere la vita: un percorso individuale, con tappe da raggiungere seguendo i propri tempi, i propri bisogni e i propri ritmi, commettendo errori e capendo così cosa potrebbe davvero renderci felici. Infatti il giudizio del regista su Julie non lascia dubbi: i suoi sbagli e le sue scelte discutibili non la rendono la persona peggiore del mondo. Solo una persona.

A cura di Melissa Marsili