La sottile linea rossa: la crudele natura degli uomini

«C’è una sottile linea rossa che separa il sano dal pazzo. C’è una sottile linea rossa che separa il paradiso dall’inferno, la vita dalla morte. C’è una sottile linea rossa che separa il bene dal male, la pace dalla guerra. O meglio, c’era una sottile linea rossa ed ora non c’è più». Questo è uno dei passi chiave de La sottile linea rossa, romanzo di James Jones, da cui Terrence Malick trae il soggetto per realizzarne un capolavoro del genere war movie che quest’anno compie ben 24 anni.

Dopo essere stato assente dalla scena per due decadi, il regista statunitense racconta il tragico evento della celebre battaglia di Guadalcanal, un’isola nel Pacifico, durante la Seconda Guerra Mondiale. Non scorre molto tempo prima di accorgersi della portata colossale di un film che, seppur non esibisca spari ed esplosioni nei primi 40 minuti, getta immediatamente le basi per permettere allo spettatore di penetrare nei polifonici flussi di coscienza di soldati in guerra contro il mondo esterno e, soprattutto, con il proprio mondo interiore. Terrence Malick rende fisica e palpabile una materia astratta come quella della filosofia attraverso dialoghi profondi e voice over, immagini potentissime valorizzate da una splendida fotografia e grazie al supporto delle musiche di Hans Zimmer. La guerra diventa il pretesto per far ragionare l’uomo sulla complessità dell’esistenza, come se soltanto dall’orrore riuscisse a estrapolare la parte più recondita di sé stesso, quella più autentica e più spaventosa; la dimensione bellica, però, rende ancor più sottile la soglia che divide la realtà fenomenica tenuta in equilibrio dalle contraddizioni e dalle opposizioni: vita/morte, bene/male, amore/odio, lucidità/follia.

È la natura stessa che conferisce suggerimenti legati al senso dell’esistenza: è una realtà forgiata su crudeli contrasti. Viene mostrata come una divinità superiore, un’entità che tutto regola e tutto controlla con indifferenza e senza giudizio. Una natura spietata la quale, tuttavia, a differenza della guerra capace soltanto di distruggere, continua a generare vita dal seme della morte (come ci viene suggerito nell’epilogo): un eterno circolo e un flusso infinito di vita che si perpetuano nonostante i logoranti capricci degli esseri umani.

Sono gli stessi uomini che agiscono in contrasto alle proprie idee. Attraverso il voice over scopriamo i pensieri che attanagliano il tenente colonnello Tall (Nick Nolte): pensieri profondi, umani, fondamentalmente buoni, sebbene il ruolo imposto dalla divisa (dalla società) lo costringe ad agire da tirannico, da uomo spietato, bramoso di morte pur di raggiungere un obiettivo ordinatogli dai superiori.

Durante il sensazionale incipit, lo spettatore viene inglobato nella natura selvaggia, dove il soldato Witt (Jim Caviezel), raccolto su sé stesso in cerca di solide risposte esistenziali, passeggia tra le sabbie di un paradiso terrestre abitato dai nativi, come se l’uomo sapesse già dove trovare la soluzione per una vita felice, pervasa di pace e benessere, in armonia con gli altri e con la divina natura. Eppure, ci dimentichiamo della soluzione e la società ci riporta a combattere guerre e battaglie che non ci riguardano, ma a cui ci obbediamo. Witt viene presto ritrovato dal sergente maggiore Welsh (Sean Penn) e messo in arresto su una nave per il trasporto delle truppe. Nel frattempo, il soldato Jack Bell (Ben Chaplin) trova conforto nel ricordo di sua moglie («L’amore… da dove proviene? Chi ha acceso questa fiamma in noi? Nessuna guerra può spegnerla, conquistarla. Ero prigioniero, mi hai liberato.»)

Il primo Editing ammontava a circa 6 ore, pertanto il regista dal cut definitivo dovette escludere attori del calibro di Viggo Mortensen, Mickey Rourke e Gary Oldman. Inoltre, il cast vanta della partecipazione di molti volti noti che ricoprono ruoli “minori”, se non addirittura brevi camei: Adrien Brody, John Cusack, John Travolta, George Clooney; professionisti capaci di regalare interpretazioni memorabili anche in pochi minuti. Vince l’Orso d’oro a Berlino e riceve ben 7 nomination agli Oscar senza riuscire a portarsi a casa neanche una statuetta. Quell’anno trionfa un altro film sulla Seconda Guerra Mondiale, Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg: un film più mainstream, più accessibile e fortemente patriottico dove si pone molta enfasi sull’eroismo dei soldati.

Quella di Malick, invece, è un’opera antibellica che racconta il disumano orrore della guerra proprio attraverso gli ultimi bagliori di umanità (emblematica la rinuncia del capitano Staros di eseguire gli ordini del colonnello per non mandare inutilmente al macello i suoi soldati) di personaggi in cerca di redenzione, dominati spesso dalla paura, in bilico tra la vita e la morte, esseri fragili che crollano nel delirio e nella follia. Azzeccatissimo, in questo senso, il simbolismo veicolato dai soldati a bordo di imbarcazioni ondulanti dirette verso l’isola: metafora poetica della vita degli uomini in balìa dell’imprevedibilità dell’esistenza.

La messinscena virtuosissima e di forte impatto raggiunge l’apice durante la conquista dell’avamposto giapponese, dove ci si rende conto che, specchiandosi nelle sofferenze del proprio nemico, riecheggia il medesimo dolore. Il nemico non è mai demonizzato, bensì anch’esso è una vittima dominata da due grandi entità superiori all’individuo: natura e società.

A cura di Matteo Malaisi