La terra dell’abbastanza: le giovani speranze divorate dal male
Nel quartiere più malfamato di Roma, Tor Bella Monaca, Mirko (Matteo Olivetti) e Manolo (Andrea Carpenzano), amici d’infanzia, investono accidentalmente un uomo dileguandosi senza soccorrerlo. Questo tragico evento si rivela il passepartout che offre loro l’opportunità di entrare in rapporti stretti con il crimine organizzato.
Il film dei fratelli D’Innocenzo è un riuscitissimo e trionfante esordio che permette di approdare con personalità nel panorama del cinema italiano contemporaneo, dove è evidente l’ottima capacità registica del duo in grado di avvolgere lo spettatore, sin dai primi minuti, che diventa presto un testimone compassionevole della tragicità dei suoi personaggi. Infatti, le sapienti scelte di stile sono efficaci tanto da alimentarne il contenuto drammatico: le inquadrature fisse mostrano gli ampi spazi del quartiere, specchio del sentimento dei due amici, tormentati dall’incertezza di un futuro carico di grandi responsabilità (nei minuti iniziali l’auto di Mirko ferma in un parcheggio appare minuscola al confronto con i palazzi del quartiere romano); la musica, a partire dalle malinconiche note jazz dell’incipit fino ai suoni elettronici disturbanti, restituisce le sfumature delle anime tormentate; la fotografia alterna sapientemente colori caldi e freddi in base alla situazione in cui ci si trova, senza tralasciare che tutto il comparto tecnico rende ben solida l’opera prima dei fratelli D’Innocenzo.
La terra dell’abbastanza non è solo un racconto sull’ascesa criminale di due ragazzi che si fanno ingoiare facilmente dal male e dal crimine, bensì un film sul rapporto tra genitori e figli, d’altro canto, la complessità delle relazioni familiari è il fil rouge presente anche nelle opere successive (Favolacce 2020, America Latina 2021). Se da un lato Mirko è premuroso nei confronti di sua madre, dall’altro Manolo subisce l’immaturità di un padre (interpretato da un’impeccabile Max Tortora inedito in un ruolo drammatico) che lo supporta nelle sue attività criminali piuttosto remunerative, siccome il denaro sembra essere l’unica soluzione al benessere fisico e psicologico garantito da una certa stabilità economiche. Non a caso per i protagonisti lo sperpero del denaro diventa il modo migliore per sfogarsi e per non pensare all’orrore delle proprie vite.
Il film raffigura un’emozionante parabola discendente dell’essere umano che nuota faticosamente in un tempo e in uno spazio impossibile da controllare, anzi, la vita non è più un’opportunità per sperare e sognare ma viene dipinta come fenomeno straniante e confusionario. E quindi è meglio non pensare, agire istintivamente, accantonare relazioni affettive e abbandonare il sentimento. Peccato che l’uomo sia eternamente costretto a fare i conti con le proprie emozioni, possiamo essere bravi a reprimerle ma esse trovano sempre il modo di liberarsi, poiché siamo pur sempre fatti di sangue e sentimento.
A cura di Matteo Malaisi