L’età dell’innocenza: tra apparenza e tradizione
Pendenti e bracciali, argenteria e ceramiche, sigari e piatti da portata: la cinepresa di Martin Scorsese indugia con piacere sui simboli di un mondo sfarzoso e opulento. È la New York degli anni Settanta del XIX secolo, sulle cui strade non sfrecciano ancora i taxi gialli ma solo le carrozze trainate dai cavalli. Archer Newland è una delle tante pedine in questo gioco di apparenze e di malelingue: figlio di una delle famiglie più facoltose, lavora come avvocato ed è fidanzato con May Welland, fatua ragazzina in attesa di sposarsi.
Guidati dalla voce di una suadente narratrice (il film è tratto dall’omonimo romanzo di Edith Wharton), abbiamo il privilegio di varcare le porte delle case private in cui si organizzano balli e cene di gala. La società che ci viene presentata non è molto dissimile da quella vittoriana inglese: in un benessere economico dilagante tra le fasce più alte, esiste una totale discrepanza tra i valori di rispettabilità ostentati dai membri dell’élite e la loro vera natura, vacua e corrotta. Non sarà un caso che il profilo della signora Mingott, «imperatrice» e «matriarca di questo mondo», ricordi vagamente proprio quello della regina Vittoria.
Nella ragnatela di parentele intrecciate coi matrimoni si ha quasi l’impressione di soffocare. E la nuova preda dei pettegolezzi è la contessa Ellen Olenska. Fuggita da un matrimonio fallimentare con un conte polacco, la donna aveva trovato rifugio presso la famiglia di May, di cui era cugina. Archer sembra l’unico realmente interessato alla sorte di Ellen e a credere che non si meriti quel tipo di trattamento solo per la vita infelice che aveva trascorso in Europa. E se inizialmente l’avvocato metteva in discussione il conformismo della società solo in privato, sostenendo invece la famiglia e la tradizione in pubblico, alla fine anch’egli si sarebbe esposto sempre più per la donna che aveva risvegliato in lui sentimenti sopiti da tempo.
Insofferenti entrambi a quel mondo in cui «la verità non era mai detta né pensata», Ellen e Archer si sfiorano di continuo ma non riescono mai a cogliere l’occasione giusta per svincolarsi dai propri ruoli e per decidere di vivere la loro relazione apertamente. Né l’uno né l’altra, più o meno consciamente, sono infatti in grado di accendere la miccia. Conformarsi alla tradizione e sposare May sarà per Archer la via più facile da percorrere, nonostante Ellen gli avesse dato «il primo scorcio di una vita vera».
Una vita vera stritolata dalla “ragion di famiglia”, dalla tranquillità di una quotidianità domestica da sempre accarezzata, in cui non c’era spazio per il nuovo che scardina le vecchie abitudini e mette in discussione le proprie certezze. Qualcuno potrebbe comunque pensare che, a voler essere ottimisti, la resa di Archer non sia totale: rifugiandosi nel cantuccio della propria immaginazione, l’avvocato newyorkese continua a figurarsi la propria relazione con Ellen in maniera astratta, «come un amore immaginario» di un dipinto, rimpiangendo «la visione completa di tutto ciò che aveva perduto».
A cura di Mattia Rizzi