Licorice Pizza o C’era un’altra volta a… Hollywood

Los Angeles, 1973. La venticinquenne Alana Kane (Alana Haim) lavora per la giornata come assistente fotografa in un liceo della valle di San Fernando. Tra i tanti studenti presenti per la foto dell’annuario, le si avvicina il quindicenne Gary Valentine (Cooper Hoffman), attore bambino di successo, che si invaghisce immediatamente di lei. I “tira e molla” di questo incontro-scontro generazionale si riflettono sullo sfondo di una LA in crisi energetica, tra le alienanti vite delle stardi Hollywood e i sogni di gloria della gente comune.

La produzione di un film autobiografico sembra sempre più un passaggio ricorrente per moltissimi autori. Solo a dicembre 2022 è uscito Bardo, di Alejandro Inarritu, e si aspetta The Fabelmans, di Spielberg. Negli ultimi anni questi progetti abbondano: basterebbe citare È stata la mano di Dio, di Paolo Sorrentino; il Belfast di Branagh o Roma, di Alfonso Cuaron – anche se si tratta di una pellicola non prettamente meta-cinematografica. Un film in particolare monopolizza l’immaginario moderno di film autobiografici sulla settima arte: C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino. La nostalgica visione di Tarantino per la Los Angeles di fine anni ’60 sembra oscurare dietro le sue immense figure quasi tutti i film di questo filone, ed in particolare proprio Licorice Pizza. La pellicola di Anderson soffre probabilmente la vicinanza tematica e temporale sia in termini di uscita nelle sale, sia in termini di ambientazione, nonostante si tratti di due film che lavorano con metodi opposti e mostrini due volti della “città delle stelle” agli antipodi.

Quando nel marzo del 2022 il pubblico è entrato in sala per gustare l’opera di Anderson, tutti avevano in mente – chi più, chi meno – la prospettiva che Tarantino aveva definito per la sua New Hollywood. La Los Angeles proposta utilizzava al meglio il concetto di moderno fantasy: un mondo costruito ad hoc per essere pura attrazione, popolato da stelle le cui personalità larger than life si stagliano su fondali titanici ma desolati, nei quali non c’è spazio per i pesci piccoli, che finiscono per subire le conseguenze della selezione naturale. È il luna park di Tarantino: un luogo in cui andare a caccia di citazioni e nuova epica da raccontare. È dunque lecito per il suo autore chiudercisi e lasciare allo spettatore solo la possibilità di assistere come visitatore temporaneo, in un universo troppo grande per lui.

La Los Angeles di Anderson è andata avanti. Non solo perché ci troviamo cronologicamente quattro anni più avanti rispetto a Tarantino; ma anche perché l’aria fiabesca che si respirava nel film precedente si è infranta con la morte di Sharon Tate, che qui è avvenuta veramente. La sua tragica fine sembra aver demolito i monumenti del cinema delle icone, per lasciare nuovamente spazio ai cittadini di tutti i giorni. La città in cui si muovono Gary e Alana è decisamente più a misura d’uomo – forse anche per la “grandezza” anagrafica dei due protagonisti – ma ugualmente frenetica. Le nostre nuove “icone” si destreggiano tra svago e progetti imprenditoriali (un po’ azzardati), in un tour de force che ricorda veramente la magica ma convulsa routine dei divi che paradossalmente sembrano “non lavorare mai”.

Gary è un attore bambino che si sente il re della città, e Alana è un perfetto esempio di aspirante american dream, pronta a tutto per sfondare nel mondo del cinema. Nonostante la routine dei personaggi si adegui perfettamente alle rispettive ambizioni, anche il cinema subisce la riduzione in scala del loro mondo. Il vero punto di svolta e di interesse del film è la posizione di Alana e Gary rispetto ai loro sogni: la Hollywood a cui aspirano non è poi così vicina, anche topograficamente parlando. Il personaggio di Cooper Hoffman è palesemente troppo cresciuto per le parti che ricerca; Alana ha uno spiacevole incontro con la star Jack Holden (Sean Penn), che le mostra come la vita di un idolo possa essere così meschina, autoreferenziale, e un po’ patetica. Ecco allora che il mondo che ci aspettavamo di trovare si defila progressivamente, portando i protagonisti a sedersi in platea con noi, e noi a prendere il loro posto. Con Jon Peters (Bradley Cooper) si tocca l’apoteosi: la distruzione della sua macchina è l’accettazione di un mondo hollywoodiano troppo lontano, e la consapevolezza – forse l’unica offerta ai protagonisti – di poter fare a meno di una partecipazione attiva. P. T. Anderson lavora per sottrazione, coinvolgendo gli spettatori in sala ad assecondare la posizione di Gary e Alana, ai quali viene negato il cinema dei grandi eventi, il cui posto viene preso dalla quotidianità.

La capacità di trattare una storia semplice si avverte nella gestione della profondità umana e caratteriale dei propri personaggi, da sempre cavallo di battaglia di Anderson. Le vite “da spettatori” dei protagonisti si intrecciano in un valzer che li vede scambiarsi più volte i ruoli, raccontando una relazione che ha dell’inedito, sui fondali di una Los Angeles atipica. Se il luogo del cinema di Tarantino è quello dell’intimità autoriale ed è un tentativo nevrotico di tenere insieme i pezzi della sua utopia, Anderson presenta in maniera più semplice e distesa i luoghi e le atmosfere della sua infanzia, in una lettera d’amore non tanto al cinema ma a sé come spettatore e a noi come tali, senza risultare meno sontuoso del collega.

A cura di Alessandro Cricca