La cosa da Questo mondo
Little Joe è un grazioso fiore di color rosso vermiglio con capacità terapeutiche. Realizzato dalla biologa e coltivatrice Alice con l’aiuto del collega Chris, è progettato per essere fisicamente in grado di donare felicità a chiunque voglia prendersene cura, tramite l’inebriante profumo. A causa del regime di alterazione genetica a cui è stato sottoposto durante la sua creazione, subisce però un’inaspettata mutazione. La protagonista, sulla scia del successo, tuttavia non riesce – o non vuole – rendersene conto. Le numerose scelte stilistiche, condite da alcune scene speculari, testimoniano come il film attinga pienamente al repertorio della fantascienza anni ‘50, in particolare da La cosa da un altro mondo(1951) o, soprattutto, da L’invasione degli ultracorpi (1956). Nella morsa tra le centrifughe spinte thriller – desunte dal primo film – e l’ansiogena pressione centripeta – presa dal secondo -, il film della Hausner si differenzia dagli altri due in base alla natura del suo piccolo epicentro vegetale.
La forza di Little Joe è quella di affidarsi ad una solidissima struttura narrativa, realizzata a partire da un’ottica originale. Nella normalità dei casi lo scenario da cui prendono vita film di questo tipo è pseudo-apocalittico: un’entità apparentemente innocua, che riesce a infiltrarsi all’interno di un contesto umano spesso negligente, finisce per gettare nel caos i protagonisti e la loro società. Ne La cosa e ne L’invasione le entità hanno un comportamento totalmente distruttivo nei confronti delle comunità con cui entrano in contatto: o l’uomo si difende o l’invasore lo prevale, non c’è spazio per la conciliazione. Questa forte tendenza alla conflittualità nasce senza ombra di dubbio proprio dalla natura dell’antagonista – alieno in entrambi i film citati –, percepito istintivamente come minaccia esterna, strettamente legata alla natura del proprio film. In particolare, ne L’invasione degli ultracorpi, sono ben delineati gli spettri del recente periodo di caccia alle streghe anticomunista in America, che inquadrano il generale contesto di sfiducia e inquietudine per la modernità.
Si può dire certamente che un inquietante pessimismo per il futuro aleggi anche tra le inquadrature di Little Joe, ma è meno smaccatamente politico e sociale (almeno non direttamente), ripiegando sul non rinviabile problema ambientale che affligge il nostro tempo. Little Joe è fin dal principio un araldo di Madre Natura, soggiogata allo sfruttamento umano, ma non del tutto inerme. Questa novità tematica per il genere si accompagna a quella che è la differenza più netta tra la pianta e gli antagonisti del secolo scorso: Little Joe non è un “nemico” esterno ma interno. Il fatto di essere un elemento naturale tanto quanto l’uomo gli permette un conflitto meno netto con gli altri personaggi. Nel suo tentativo di (re) colonizzazione si dà spazio più alla persuasione – incessante ma pacifica – che alla violenza istantanea. Il suo approccio alla società è nettamente più conciliatorio e sembra trasformarsi quasi in un rapporto filiale con l’uomo, anche in virtù del concetto di legame affettivo che è una delle premesse del film. Alla componente distruttiva della “cosa” o degli “ultracorpi” sembra accostarsi almeno apparentemente un approccio costruttivo.
La risposta dell’uomo ad una minaccia così mimetica è ovviamente peculiare. La tipica sensazione di costante terrore e pericolo viene avvolta da una nebbia di scolorita incertezza, che permane durante tutto l’arco del film, almeno agli occhi dei protagonisti della vicenda. Perché se allo spettatore è palese come in realtà Joe stia alterando in modo artificioso i legami tra i personaggi e azzerando la loro possibilità d’azione, i diretti interessati non hanno mai una testimonianza concreta del cambiamento, tanto meno una prova che possa dimostrarlo. Ma ciò che effettivamente impedisce ad Alice e agli altri di prendere posizione nei confronti della pianta è il suo funzionamento: tutti i personaggi – anche se sotto gli influssi di Joe – testimoniano come previsto uno stato di aumentata serenità dopo il contatto col fiore. Il vegetale si è limitato a guidare manualmente gli uomini fuori da una condizione di tumultuosa reiterazione della vita, in realtà già artificiosa di suo: la società del pre-Joe non è infatti molto lontana da quella del post.
Lo stile di manovra egemonica del fiore non deve fare pensare ad un fine diverso da quello dei suoi corrispettivi. Volendo, ciò che comporta è una sentenza ben più severa. Classicamente la conclusione della vicenda veniva percepita dallo spettatore secondo la stessa logica dei protagonisti della medesima: in particolare molto spesso coincideva con un monito teso alla prudenza, per scongiurare una fine vicina e degradante per l’uomo. Facile da esemplificare il finale (originale) de L’invasione, con il protagonista in una fuga disperata che lanciava come ultimo un «You’re next» allo spettatore, mettendolo in guardia dall’omologazione forzata a cui la nuova civiltà del ‘900 andava incontro.
In Little Joe abbiamo invece una duplice visione: alla tradizionale percezione dei protagonisti – che questa volta è ben più di un monito – se ne affianca una solamente relativa allo spettatore. La regista ci posiziona perfettamente a metà tra le due prospettive: è assecondabile la tragicità di una imminente sconfitta umana, ma allo stesso tempo si ha un assaggio della posizione di Joe, o meglio della Natura. Il suo intervento porta alla rimozione della pesante responsabilità di autodeterminazione della vita, ma allo stesso tempo spinge l’umanità verso una sorta di felicità primordiale. I protagonisti rinunciano alla propria – dubbia – emotività e rimettendo Joe al centro del loro mondo. L’azione della pianta finisce con l’essere identificata anche da uno spettatore “umano” come un’opera di giustizia – giustificata dai modi e dal principio difensivo di questi –, ben lontana dagli illeciti soprusi degli ultracorpi. In quest’ottica cambia anche la visione della disgrazia umana: l’avversione verso una Natura in ripresa non è più caratterizzata dal terrore, ma dall’irritazione, la stessa che si avverte negli impotenti volti dei protagonisti. Quella di chi viene privato della libertà d’azione, a prescindere che poi si sia soliti esercitarla correttamente.
A cura di Alessandro Cricca