Il mondo in uno sguardo
Una soggettiva confusa ci trapianta fin dai primi istanti nel corpo di Jean-Dominique Bauby al momento del risveglio in ospedale dopo un ictus. Siamo gli unici a poterlo sentire parlare e pensare, come fossimo anche noi, come lui, vittime della sindrome locked-in e come se la macchina da presa stessa fosse ingabbiata in una visione limitata e asfissiante, un cineocchio svuotato delle sue possibilità, disabile.
Il corpo del protagonista si trasforma pian piano in un tempio dell’immaginazione e della memoria, in una mappa per costruire la sua biografia, un racconto che diverrà un libro, che diverrà un film. Una storia vera. L’occhio sinistro di Jean-Dominique sarà d’ora in avanti la sua unica forma di espressione, di linguaggio, e il solo mezzo di interazione tra l’infinitezza della sua interiorità e il mondo circostante.
Attraverso l’intreccio di volti che ci guardano da vicino, luoghi di un passato non nostro e una voce narrante introspettiva e paziente, veniamo guidati nel “viaggio immobile” dell’ex caporedattore di Elle, in un film che a tratti ritorna sceneggiatura. Le parole sostituiscono le azioni, il corpo in cui c’eravamo incarnati esce da sé stesso per vagare dov’è già stato o dove non potrà mai andare.
La quiete della prova attoriale di Mathieu Amalric è quindi accompagnata da soggettive sfocate dalle lacrime o da inquadrature volutamente tagliate male per rappresentare visivamente l’impossibilità di muovere la testa di un uomo che vediamo a malapena e di cui seguiamo soprattutto il rapporto con alcune figure femminili, reali o immaginarie che siano: l’ex moglie, le infermiere, la nuova compagna, l’imperatrice Eugenia…
Lo aiutano a esprimersi, a comunicare, a scrivere e a diventare una versione moderna del personaggio di Noirtier de Il Conte di Montecristo, descritto da Dumas come «un cadavere con degli occhi vivi». L’assenza stessa del corpo è ciò che ci fa maggiormente percepire la fisicità di questo film, scandito da un montaggio ritmico ed efficace nel restituire l’universo interiore di Jean-Dominique con una forma cinematografica autoriflessiva e quasi sensoriale.
Lo scafandro esiliato negli abissi, senz’aria, sprofonderebbe in un deserto sommerso se non riuscisse a tramutarsi in farfalla, seppur di breve vita, grazie all’arte e ai ricordi. La malattia diviene luce e liberazione attraverso il gesto creativo della scrittura e alla fine possiamo percepire anche noi in lontananza il battito di ali di quella farfalla come la pulsazione di un cuore ancora vivo; una dichiarazione d’amore alle parole che rimangono dopo di noi.
A cura di Emma Onesti