Lo squalo: minaccia dagli abissi
Lo squalo è il cinema. È tutto ciò che un’immagine deve saper creare nel pubblico: suggestione, suspense, emozione e capacità di consegnare agli spettatori le sensazioni intime che ognuno di noi può sentire. Il film di Spielberg diede vita all’era del Blockbuster, raggiungendo un box office di 476 milioni di dollari a fronte di un budget di 9 milioni.
A ridosso della stagione balneare, la placida routine della cittadina costiera di Amity viene sconvolta dalle fameliche incursioni di uno squalo bianco gigante. Il capo della polizia locale (Roy Scheider), un giovane oceanografo (Richard Dreyfuss) e un vecchio marinaio (Robert Shaw) si incaricano di eliminare il mostro marino in una missione che metterà a repentaglio la loro stessa vita.
Steven Spielberg entra di diritto nell’olimpo dei registi di Hollywood mostrando, nel suo terzo lungometraggio, tutto il suo spessore artistico: la padronanza del mezzo, la scelta delle inquadrature e dei movimenti di macchina sono opera di un genio che ha avuto anche la sua discreta fortuna. Del resto, citando Match Point di Woody Allen: «La fortuna conta più del talento». Infatti, le fattezze dello squalo meccanico non convincevano Spielberg, tanto da fargli pensare che il film non avrebbe mai avuto successo.
Eppure il giovane Spielberg ci ha consegnato una grande lezione registica, realizzando un film così ben congeniato da poter essere inserito in qualsiasi manuale di storia del cinema come opera d’arte esemplare. Per essere più specifici, grazie allo splendido montaggio, alla fotografia, alle inquadrature soggettive dello squalo, che viene mostrato pochissimo, e alla sensazionale partitura musicale di John Williams è possibile godere di 120 minuti di adrenalina pura.
Lo squalo, basato sull’omonimo romanzo di Peter Benchley, è capace di mostrare l’invisibile, l’insondabile e l’imperscrutabile, tanto che lo spettatore percepisce nell’intimo una presenza mastodontica, una minaccia incombente che arriva dal profondo degli abissi ma che non si riesce quasi mai a vedere. D’altronde, lo squalo può essere metafora delle nostre paure individuali, dell’eterna sfida uomo contro natura, dei pericoli che affliggono l’intera società e di molto altro ancora.
In merito a quest’ultimo punto, è curioso rivedere Lo squalo in un’epoca post-pandemica, per analizzare al meglio le azioni e le reazioni che una società (o una comunità) intraprende conseguentemente al presentarsi di una minaccia: disinformazione da parte delle istituzioni, trascuranza del problema, panico collettivo per giungere tuttavia alla coesione e alla cooperatività.
È vero che il primo ritrovamento della ragazza sbranata viene occultato dalle autorità perché è in arrivo la stagione estiva: il business è inattaccabile in una società capitalista come la nostra. Ilsecondo attacco, questa volta alla luce del giorno e visto da tutti i bagnanti sulla spiaggia, comincia però a provocare qualche timore, senza comunque fermare la volontà di guadagno degli avidi businessmen. I tre personaggi che in seguito iniziano l’epica caccia del mostro sembrano a loro volta archetipi delle virtù che la mente umana oppone al predominio dei propri istinti selvaggi: la razionalità e lo studio (l’oceanografo Hooper), il senso morale e l’obbedienza alle regole (il poliziotto Brody), la determinazione e l’esperienza (il pescatore Quint).
Non ci sono cali di tensioni in un film come Lo squalo, in cui è presentissima la grande lezione hitchcockiana sulla gestione della suspense e sono presenti anche virtuosismi stilistici che omaggiano il grande maestro stimato da Spielberg, come l’effetto vertigo, in cui una carrellata all’indietro e uno zoom in avanti mostrano il volto terrorizzato di Brody, che assiste sulla spiaggia all’attacco dello squalo.
Come in tutti i film di Spielberg, inoltre, è impossibile non ammirare scorci di meravigliosa commozione familiare in cui tutti noi possiamo ritrovare le nostre immagini più intime: papà Brody, seduto a tavola dopo cena, è impensierito dalla perturbante situazione. Beve un sorso d’acqua, porta le mani giunte al mento e poi si copre il volto. Il figlio Sean, seduto di fianco a lui, imita tutti i suoi movimenti. Brody non rinuncia a chiedergli un bacio. «Perché?» – domanda teneramente Sean. «Perché ne ho bisogno» – risponde il padre. Sullo sfondo dell’inquadratura, c’è la madre, in piedi, che è intenta a guardarli e completa un quadretto familiare di struggente tenerezza.
A cura di Matteo Malaisi