Dov’è la maschera?
Charles si sbagliava. I mutanti, il nuovo stadio della specie umana, si sono rivelati niente di più che una deviazione provvisoria nel lento cammino dell’evoluzione. La razza è sull’imminente via dell’estinzione e gli X-Men sono solo un ricordo per il fu Professor X, in preda all’Alzheimer e sorvegliato dal guardingo mutante Calibano. Logan li tiene nascosti in New Mexico, nel disperato tentativo di schermare il mondo dall’ormai incontrollabile potere del suo mentore e con la speranza di poter trasferire quest’ultimo in un posto ben più confortevole.
Il protagonista ha da tempo appeso gli artigli al chiodo, guadagna qualcosa come autista di limousine, ma è sempre più stanco e malato, avvelenato da quello stesso adamantio che decenni prima era stato la sua benedizione. L’innesco della vicenda – un Logan involontario traghettatore, nella fuga di un ormai insperato gruppo di giovani mutanti messicani, per i quali gli States appaiono più come un’indesiderata fermata che un sogno – con chiari echi politici, viene però fin da subito lasciato in sottofondo.James Mangold – prima di mettere le mani su Le Mans ’66 – dirige nuovamente Hugh Jackman, dopo aver già lavorato assieme per la realizzazione del precedente capitolo dedicato al personaggio: Wolverine l’immortale.
L’intento dicotomico pare evidente dai titoli originali dei film presi in considerazione – semplicemente The Wolverine e Logan – ma sfortunatamente non degnamente rappresentato. Il film precedente – fortemente legato alle origini fumettistiche del personaggio – risulta goffo, retorico ma soprattutto innaturale. Il lato prettamente supereroistico non è mai stato approfondito in nessuna delle precedenti uscite cinematografiche, sempre considerato poco appetibile o funzionale: il primo film Marvel di Mangold, a prescindere dai limiti della sceneggiatura, sembra comunque confermare il trend. Sin dal 2000 – con il primo capitolo del franchisesotto la direzione di Bryan Singer – in particolare il look è stato fortemente rivisitato per adattarlo allo schermo, finendo col preferire alla sgargiante tuta della sua controparte cartacea la prestanza fisica di Jackman/Logan, che avrebbe poi fissato indelebilmente il personaggio nell’immaginario comune.
Logan è sempre stato legato alla distruttibilità del suo corpo, ma mai come in questo capitolo le cicatrici vengono a galla e scavano la faccia dell’artigliato canadese. Con un cinema che sempre più spesso indossa una protettiva calzamaglia di metallo o si rannicchia dietro uno scudo a stelle e strisce, finendo per confondere il volto insanguinato con una faccia sporca di terra, Jackman dà anima ma soprattutto corpo al ruolo che gli ha segnato la carriera, proprio nel momento in cui stava per vincere la sua battaglia al tumore alla pelle che già da diversi anni lo affliggeva. La disperata e mai risolta ricerca delle origini – che da sempre accompagna Logan – lo ha fin da subito spinto verso un percorso solitario, tenendolo ogni volta saldamente a terra, impedendogli di fatto di ergersi ad eroe o di divenire un simbolo. «Tutto per essere un sopravvissuto», come gli ricordava il grandioso Magneto di Fassbender in quello che è il canto del cigno cinematografico per i Figli dell’atomo (Giorni di un futuro passato).
Tutto si riduce a questo: un disperato viaggio per la sopravvivenza della specie, durante il quale i fantasmi del passato infestano le notti e le insidie del futuro sono messe in evidenza dalle luci del giorno. Logan non ha mai avuto tempo – parola chiave del film – per diventare Wolverine e in tutta consapevolezza non può augurarsi che qualcuno raccolga la sua eredità. Alla fine, Logan e gli X-Men diventano un ricordo del tempo che fu: nessun monito, nessuna laudatio funebris, non un testimone da passare. Non c’è spazio per uno spidermaniano «ci può essere chiunque dietro la maschera» perché di fatto una maschera non è mai potuta esserci.
A cura di Alessandro Cricca