Lost in Translation: l’amore sussurrato
Bob Harris è un attore americano decaduto che si è ridotto a girare una pubblicità di un whiskey a Tokyo. Le sue giornate scorrono inesorabili tra le mura di un hotel, circondato da un plotone di ossequiosi cerimonieri sempre pronti a dimostrare tutta la loro deferenza. Charlotte è una giovane laureata in filosofia a Yale che ha deciso di seguire il marito fotografo in Giappone per non stargli lontano, e ora si ritrova quasi costretta, pur con qualche sfogo, in una camera d’albergo.
Le loro storie non potrebbero essere più diverse. Eppure alcuni punti di tangenza disseminati nel film ci portano a pensare che, prima o poi, queste due strade siano destinate a incrociarsi: inguaribili insonni ed entrambi in difficoltà nei loro matrimoni, sembrano solo di passaggio in una città che si divide tra quieti templi religiosi e psichedeliche sale giochi.
Tokyo è una metropoli le cui insegne a neon dei grattacieli obbligano a tenere il naso puntato all’insù ma è anche un luogo in cui tutti parlano una lingua sconosciuta ai due protagonisti, trasformando così il paese di Bengodi in una realtà potenzialmente ostile che genera un involontario senso di isolamento e costringe Bob e Charlotte a fare il punto sulla propria esistenza.
È infatti proprio questa città schizofrenica a fare da sfondo a un confronto tra due realtà solo apparentemente lontane. Sofia Coppola mette in scena due crisi speculari: Bob Harris, padre e marito di mezza età, è privato di nuovi stimoli lavorativi e si limita a comunicare via fax con sua moglie, la quale sembra più interessata all’arredamento della casa piuttosto che alla loro relazione. Charlotte, invece, con tutta la furia che incendia i ventenni, si è appena affacciata sul mondo e sembra aver già bruciato gran parte delle prime tappe, trovandosi ora con un baratro sotto ai piedi, insicura sui prossimi passi da compiere.
Però in questa insolita relazione, che forse prima di tutto diventa un’amicizia, ma che talvolta sembra oscillare anche verso un rapporto padre-figlia, si ricompone quella frattura legata al sentimento di smarrimento cui erano andati incontro i due protagonisti. Messi infatti l’uno di fronte all’altro, Bob e Charlotte raggiungono un nuovo grado di consapevolezza e la storia che seppur parzialmente intrecciano si trasforma in un’occasione di crescita reciproca.
Inoltre la contaminazione tra i due mondi dei protagonisti è condotta con una leggerezza discreta che non scade mai nell’erotismo triviale e si realizza tramite gesti appena sfiorati, come la mano di Bob che tocca gentilmente il piede di Charlotte quando i due se ne stanno sdraiati a letto, l’uno di fianco all’altra, senza fare nulla.
Del resto, con lo stesso tatto, si chiude anche l’ultima scena del film: il primo e ultimo bacio che si scambia la coppia è preceduto da una battuta, un messaggio sussurrato da Bob all’orecchio di Charlotte, di cui non siamo resi partecipi. Ma va bene così. Restiamo volentieri esclusi dalla conclusione di una storia mai veramente iniziata ma capace di trasportarci altrove con una delicata eleganza intimista.
A cura di Mattia Rizzi